Su ilLibraio.it un estratto da “L’estate breve”, malinconico romanzo di formazione di Enrico Macioci, che nasce da una riscrittura di “Breve storia del talento”

Enrico Macioci, nato a L’Aquila nel 1975, ha esordito con Terremoto (Terre di mezzo, 2010), a cui sono seguiti La dissoluzione familiare (Indiana, 2012), Lettera d’amore allo yeti (Mondadori, 2017), Tommaso e l’algebra del destino (SEM, 2020) e Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia (TerraRossa, 2022). TerraRossa propone ora L’estate breve, romanzo che nasce da una riscrittura di Breve storia del talento, pubblicato da Mondadori nel 2015.

Il giovane protagonista scelto da Macioci (laureato prima in Giurisprudenza e poi in Lettere moderne) è impacciato con le sue coetanee e disorientato dalla passione per la scrittura, ma ha una dote che coltiva con costanza e determinazione: sa giocare molto bene a calcio.

Quando però nel suo quartiere arriva Michele, dovrà ridimensionare le ambizioni e ammettere che “il talento, come la vita, può sembrare un magnifico, drammatico capriccio. E forse lo è”.

In questo romanzo di formazione malinconico, Macioci propone alcune pagine luminose sull’età di passaggio dall’infanzia all’adolescenza, sull’ascendente dei desideri sulle nostre esistenze, sulla suggestione dei ricordi.

L'estate breve di Enrico Macioci

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

(…)

La prima volta che Miriam confessò di amarmi ave­vo otto anni; ci trovavamo in camera mia, soli. Non so perché sua sorella non ci fosse, generalmente Miriam e Ada venivano a casa mia insieme. Giocavamo con le co­struzioni, avevamo tirato su un castello fiabesco. Prima che parlasse sentii la rivelazione giungere nell’aria, simile all’odore che preannuncia la pioggia d’estate – quasi tut­te le cose decisive accadono in estate, durante l’infanzia e l’adolescenza. Io finsi di non aver udito e lei lo ripeté più chiaro, «Ti amo, ti amo», le guance tonde e rosse, le cioc­che nere dei capelli fissate dalle forcine a incorniciarle il viso, la pelle chiara, un vestito a tinte pastello, una bimba deliziosa e spietata, decisa a vuotare il sacco, a mettermi con le spalle al muro. Io biascicai qualche frase senza sen­so – nulla, a parte «Anch’io ti amo», avrebbe avuto senso, ma non l’amavo o credevo di non amarla, che è lo stesso.

Miriam stava inginocchiata sul mio tappeto, il tappe­to dove ogni pomeriggio, dopo pranzo, organizzavo fu­ribonde partite di calcio i cui contendenti erano puffi e pupazzi; ripiegò di due dita l’orlo del vestito con acerba civetteria, scoprendo un tratto di gamba, un gesto sem­plice e seducente; poi lo riabbassò e si alzò in piedi e io rimasi seduto, maneggiando un giocattolo, non ricordo, forse una fata turchina da sistemare nel castello – la fata turchina non si muove e non esiste, ci si può fidare di lei, ci lascerà tranquilli, non ci chiederà mai niente. Infine mi guardò, le guance carminio sul pallido incarnato, i ca­pelli neri dietro le orecchie, aspettando una risposta che non arrivò – avevo abbassato gli occhi sulle sue scarpe da ginnastica, bianche con bande rosa laterali sullo sfondo scuro del tappeto. Il mio silenzio fu rotto dalla voce di sua madre che la reclamava. Ora di cena. A tavola. Saluta e ringrazia. «Ciao» dissi, consentendomi di guardarla in faccia. «Ti amo» ripeté ancora lei, e la sua faccia era un roseto, un dolce roseto esploso.

Miriam non disse più di amarmi e non tornammo mai sull’argomento. Forse nei giorni immediatamente succes­sivi alla sua dichiarazione ci fu tra noi dell’imbarazzo, ma non ne sono certo, può darsi che me lo stia inventando adesso o che me lo inventai allora, in ogni caso da bam­bini tutto è più facile e più difficile, tutto è più diretto, privo di filtri protettivi e deformanti, senza vie di mezzo, e ciò accade perché l’età adulta consisterà più o meno per intero in una via di mezzo, in un lungo e sfiancante com­promesso.

Non ne parlammo più, neppure ne accennammo o fa­cemmo battute (i bambini sono troppo seri per ironizzare su qualcosa), insomma continuammo a giocare, litigare, inseguirci, sputarci addosso, riappacificarci, passarci la palla, chiamarci, divertirci, sfiorarci e toccarci e perfino picchiarci – rammento il suo vago odore di latte, un odore che mi dava un poco alla testa procurandomi visioni di stanze color panna occupate da giganteschi lettoni e in­vase da una densa luce pomeridiana, una sostanza calda che accoglieva ma al contempo isolava dal resto del mon­do. L’odore di Miriam celava e racchiudeva altri sfuggenti odori, che era difficile stabilire se fossero reali o immagi­nari; in genere quell’odore mi tornava alle narici la sera quando mi stendevo a pancia in giù col naso nel cuscino, un attimo prima che mia madre, rimboccate le coperte e chinatasi per un rapido bacio, spegnesse l’abat-jour augu­randomi la buonanotte e lasciandomi nella nube fanta­sma del suo corpo.

(continua in libreria…)

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