Il protagonista di “L’uomo che parlava ai funerali”, toccante romanzo di Mario Zangrando (di cui proponiamo un capitolo), è un esperto di funerali. Nelle sue agendine annota con precisione l’ora e il luogo, ci aggiunge qualche segno particolare del defunto, e poi partecipa a una funzione dietro l’altra. Alle spalle ha una storia particolare. Ma, ancora una volta, un incontro cambierà la sua vita…

Renato è un esperto di funerali. Nelle sue agendine, annota con precisione l’ora e il luogo, ci aggiunge qualche segno particolare del defunto, e poi partecipa a una funzione dietro l’altra, tutto il giorno, tutti i giorni. Poche parole ben scelte e il gioco è fatto: amici e parenti sono in lacrime e la catarsi è compiuta.

Renato è solo, ma non è sempre stato così: un tempo, la sua vita era riempita dall’esuberante moglie Lidia e dal figlio Luca. Una famiglia come tante, una vita semplice: il lavoro da messo comunale, le vacanze al mare, tanto amore, qualche litigio. Finché un giorno la vita di Renato va in pezzi e, da quel momento, la morte diventa per lui una compagnia costante eppure irraggiungibile, qualcosa che lui evita e cerca insieme.

L'uomo che parlava ai funerali

Ma il destino ha ancora in serbo delle sorprese per Renato, a cominciare dalla misteriosa donna che, vestita immancabilmente di nero e pure lei con un’agendina in mano, sembra seguirlo di funerale in funerale.

In L’uomo che parlava ai funerali (astoria), con uno stile diretto e al tempo stesso poetico, Mario Zangrando tesse una storia che cattura e commuove, e ricorda che la vita può sempre cambiare in meglio, anche quando ci sembra di aver perso ogni speranza…

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

(…)

Ecco come vanno le cose: esci la mattina, compri i giornali, controlli nelle bacheche degli annunci funebri se ci sono novità, poi torni a casa, inizi a buttare giù due note, per completezza ci attacchi sopra il necrologio, le due righe in cronaca o l’articolo intero, se c’è. E magari ti prendi il disturbo di fare qualche domanda in giro, ti documenti, ci aggiungi un paio di considerazioni tue, un’osservazione più personale…

Poi le pagine si accumulano, termina lo spazio nell’agenda, ne inizi una nuova. E vai avanti, finché non hai riempito un’altra agenda. E poi l’intero ripiano della libreria. Sarebbe il momento di chiuderla lì, ma poi guardi la libreria e ti rendi conto che l’ultima della serie non ci sta, in quel ripiano. E allora la piazzi nel ripiano appena sotto. Ma lì, da sola, poverina, che senso ha?

E lo sguardo si sposta sulla prima della serie, cacciata lassù in cima apposta, per renderla difficile da raggiungere, perché ti imbarazza, con tutte le sue goffaggini da principiante. Ma tanto non occorre che vai a tirarla giù per ricordarti com’è iniziata. L’hai fatto per Armando. Anzi no, per lui non potevi più fare nulla. L’hai fatto per Gisella.

“Le diresti due parole, Renato? Andavate tanto d’accordo, voi due…”

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Avresti dovuto rifiutare, dire che non te la sentivi, simulare un raffreddore, un’amnesia. Ma non te la sentivi nemmeno di dirle di no, e hai accettato. Però non sapevi da dove cominciare. E hai inaugurato il metodo: un mucchio di lavoro per dire poche cose, a volte anche niente, ma che sia almeno un niente significativo.

Eppure, davanti a questa libreria piena che non ci passa neanche un foglio tra agenda e agenda, ti ritrovi a pensare: perché continuare? Solo perché ti riesce bene? Solo per il brivido di non sapere mai, fino alla fine, se ci riuscirai oppure no? Sarà per quello, forse, non so.

E continui, tanto, cos’hai da fare se non ritagliare, incollare, scrivere, fare esempi, rievocare casi personali anche se non c’entrano un bel niente col morto. Ma ormai hai scritto. Poi vai al funerale, dici quello che pensi di dire, se si crea l’occasione buona fai piangere chi deve piangere, viceversa, se qualcosa va storto, se ti rendi conto che non c’è margine, che non c’è verso, incassi e molli il colpo. Solo che, dopo un po’ di anni, ti ritrovi con una libreria intera piena di agende traboccanti di cose che…

“Finché c’è vita c’è speranza”, diceva Armando. Si riferiva al calcio, naturalmente, alla sua squadra del cuore che non vinceva mai nessun campionato, nessuna coppa, nessun titolo che avesse una minima rilevanza. In certe stagioni ci andava vicino, in certe altre non si vedeva il risultato nemmeno col binocolo, ma Armando continuava a seguire sui giornali, alla radio, alla televisione. Aveva fondato un club di tifosi, affittavano il pullman e andavano anche allo stadio, avanti così, tutti gli anni. Finché non si è stancato e ha fatto altro.

Poi, qualche anno dopo, è arrivata una stagione dove la sua squadra ha vinto tutto: campionato, coppe nazionali e internazionali. E lui seguiva meno, ormai era ammalato, non gli mancava più tanto, ma è stato contento lo stesso.

Anche io penso che la dovrei smettere, accettare che prima o dopo il momento arriverà anche per me. Ora basta, Renato, sei arrivato all’ultima pagina, chiudi l’agenda e mettila via con le altre.

Accidenti, non ci sta.

Va bene, ancora una.

Sono un tipo abbastanza meticoloso. Mi piace organizzarmi, essere preparato; penso sia importante. Una qualità. Lidia mi prendeva in giro per questo, a volte era proprio impertinente, però le faceva comodo. Come quella volta di: “Ma così non è più un picnic”.

Me lo ricordo come fosse ieri. Era l’estate dell’81, eravamo sposati da poco, faceva un caldo boia, tutto il paese era in villeggiatura da qualche parte, tranne noi. Nelle vicinanze c’era, c’è ancora, un laghetto artificiale, che prima era una cava. Si raggiunge dalla strada, poi c’è un sentiero che si perde in un prato che continua in discesa, giù, fino al lago. Lidia a un certo punto decide che non c’è niente di meglio che andare a fare un picnic lì. Io le dico che sì, che si poteva andare a fare una bella passeggiata, di prima mattina, col fresco e, dopo aver guardato la natura, i fiori, le farfalle e tutto quello che le interessava, potevamo tornarcene a casa a mangiare tranquilli, all’ombra, con le gambe sotto al tavolo…

“Ma così non è più un picnic!”

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E allora, di buon mattino, ho preparato tutto l’occorrente, in una bella cesta. Sarebbe stato più pratico uno zaino, “ma così non è più un picnic”. Ho assicurato la cesta al portapacchi della bicicletta e poi ho fatto accomodare anche Lidia, sulla canna, tra me e il manubrio. Lo facevamo sempre; avevamo cominciato da fidanzati e abbiamo continuato finché non ho comprato l’auto.

Era così bella nel sole, col vento tra i ricci profumati. Per ogni riccio un capriccio, si dice. E in effetti. Ma le perdonavo qualsiasi cosa. Era tanto felice di quell’avventura da poco, di quella gita (picnic!) da spiantati, poveri in canna – è proprio il caso di dirlo – che eravamo. Non avevamo i soldi per la macchina, non avevamo i soldi per le vacanze, eppure, per la strada deserta, Lidia non ha fatto altro che cantare, sapeva tutte le canzoni che c’erano in radio, io gliele chiedevo e lei non sbagliava un ritornello.

“Ho sposato un juke-box”, le dicevo e lei rideva.

Poi con la bicicletta siamo arrivati fin dove la strada d’asfalto finiva e abbiamo preso per il sentiero, finché anche quello si è disperso nell’erba e allora lei è scesa, si è messa a trafficare con le fibbie dei sandali, mentre io mettevo in equilibrio la bici sul cavalletto e tiravo giù la cesta del picnic. L’avevo organizzata con una certa logica: sopra avevo posizionato una bella coperta da stendere sul prato, subito sotto tovaglia e tovaglioli, poi pronti per l’uso c’erano…

“Amore, dai, lascia stare.”

Ma io volevo prima trovare il posto giusto per mettere giù le nostre cose.

“Amore, dai, lo fai dopo.”

Ma io pensavo che mi bastavano davvero due minuti e…

Sollevo lo sguardo e non la trovo. Mi guardo attorno, ci sono i suoi sandali nell’erba, uno è a due metri da me, con la suola rivolta verso l’alto, l’altro è più lontano, come se l’avesse calciato via. Pochi passi più avanti, la sua gonna a fiori, afflosciata a terra, più in là ancora distinguo sul verde dell’erba l’azzurro della sua maglietta e poi, giù in fondo, tra il mio sguardo e il riverbero dell’acqua, lei che corre all’impazzata, in discesa, verso il lago, saltellando e ridendo come una matta. Un lancio di mutande in aria, seguito dal rumore di un corpo che si getta nell’acqua dolce e poi il grido di chi incontra, nella calura, un refrigerio superiore alle aspettative.

“Amore! Vieni anche tu!”

Come dicevo, sono un tipo abbastanza meticoloso; prima di fare le cose, se posso, mi documento. Lidia no. Lei era una che, be’, si buttava.

Se non teneva in considerazione che uno sbalzo termico violento può fare male all’organismo, figuratevi se si preoccupava del fatto che nei laghi artificiali, spesso, ci mettono, per bellezza, qualche pesciolino che poi trova le condizioni ideali per riprodursi e infestarlo. Oppure che, nei pratoni isolati di pianura, i pastori ci portano le greggi in transumanza e che le pecore, oltre ai ricordini visibili che la terra riassorbe, lasciano anche dei ricordini meno visibili ma più fastidiosi. Avrei dovuto metterla in guardia, ma come potevo immaginare? E poi, se anche glielo avessi detto, mi avrebbe risposto che ero un noioso, sempre preoccupato, troppo, per tutto.

E infatti nemmeno due bracciate e: “Oddio! Mi ha morso!”

I lucci mordono, soprattutto d’estate. Sono animali carnivori. Ho letto, tra l’altro, che non disdegnano il cannibalismo, nel senso che si mangiano anche tra loro, specie d’estate, perché, a quanto pare, c’è meno cibo in giro e… Ma sto divagando.

Lidia schizza fuori dall’acqua in tutto il suo candido, spaventato, fragile splendore e nella foga sceglie proprio il lato dove l’erba è più alta, cacciandosi, sedere al vento, nel mezzo di un altro pericolo. Afferro la coperta da picnic (no, a questo punto non è più un picnic) e corro verso di lei, gridandole di fermarsi.

Ma ormai è inutile, eccola lì che attraversa tutta la macchia d’erba alta per venirmi incontro.

“Mi ha morso! Mi ha morso!”

La raggiungo e l’avvolgo nella coperta. Lei piange, la stringo a me, si stringe a me, mi mostra la mano: sul mignolo e sull’anulare, fino all’altezza della fede, ci sono i segni dei dentini del luccio. “Guarda, guarda qua, amore, che paura, ma perché non me l’hai detto? Perché mi hai lasciata andare?”

È troppo, me la carico sulle spalle, arrotolata come un tappeto, e la riporto indietro di peso, procedendo a zig-zag per raccogliere di qua e di là mutande e vestiti. Se la ride, adesso, mannaggia a lei.

Arriviamo al mio organizzatissimo cestone, la scarico, e inizio a trafficarci dentro. Sul fondo c’è quello che cerco: disinfettante, cotone idrofilo, cerotti, pinzette. La faccio sedere e le disinfetto il morso del luccio. Sono solo piccole abrasioni. Lei si lamenta perché il disinfettante brucia, io ci soffio sopra, ma è tutta una scusa per farsi baciare e risarcire, lei e me, per lo spavento. Le metto due cerotti piccoli sui tagli. Poi disinfetto le pinzette.

“Ma cosa ci fai con quelle?”

(continua in libreria…)

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