Carlo Calabrò debutta con “Meccanica di un addio”, avventuroso thriller (di cui proponiamo un estratto) ambientato nel cuore della lussureggiante giungla tropicale, tra spaesamenti, questioni ecologiche, dilemmi etici e palpiti del cuore…

Per l’ingegner Florian Kaufmann, nato e cresciuto nella prevedibile tranquillità della Svizzera, l’animale più pericoloso dell’Amazzonia non è né il caimano, né il giaguaro.

Kaufmann ha un problema soprattutto con gli esseri umani, e in particolare con quelli del minuscolo villaggio brasiliano di Araxá do Oeste, dove il suo sogno d’impresa ecologica ed etica si sta rivelando un probabile fallimento. E proprio quando sembra che gli affari possano finalmente andare per il verso giusto, i suoi progetti vengono stravolti, costringendolo a barcamenarsi tra poliziotti incapaci, concorrenti senza scrupoli, zelanti assicuratori e una rete di criminali pronta ad assoldarlo. O forse a farlo fuori

meccanica di un addio

La logica, in Brasile, raramente è lineare. La ricerca della verità porterà Kaufmann a riconsiderare le sue scelte personali e professionali, obbligandolo a riesaminare i suoi principi morali e ad accettare i suoi limiti e le sue debolezze; e, infine, a fare una scelta radicale e risolutiva.

Nato a Palermo, Carlo Calabrò, bioingegnere per formazione, sceneggiatore e attore per passione (“ma in un paio di vite precedenti è stato anche consulente, banker e imprenditore tra Parigi e San Paolo), firma per Marsilio il suo thriller d’esordio, Meccanica di un addio, ambientato nella foresta amazzonica, tra conflitti ambientali, inganni, dilemmi morali e sviluppi imprevedibili…

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Le fiamme di un incendio, in lontananza, aggiungevano toni giallastri a un tramonto già fin troppo variopinto. I colori dell’Amazzonia, gli stessi di cui si era innamorato qualche anno fa, oggi all’ingegner Florian Kaufmann invece davano fastidio. Troppo teatrali, troppo brasiliani: quando era di cattivo umore, del Brasile vedeva soltanto i difetti. Tutta quella esuberanza buttata là, senza un vero perché.

«Deus é brasileiro» dicono i locali per vantarsi di tanta bellezza naturale. Sarà pure onnipotente, pensava l’ingegnere, ma che sciatteria. In tutte le schiere di angeli, arcangeli, principati e potestà, neanche uno che ne capisca di design? O per lo meno che rimetta in ordine ogni tanto?

Senza una bava di vento, il fiume era talmente placido che non se ne sarebbe potuto indovinare il senso di scorri- mento. La zattera di raccordo lo attraversava lenta, con un cupo ronzio. Kaufmann scese dal posto di guida del suo pick-up e accese una sigaretta. Pensò alla cicca accesa che doveva essere stata buttata laggiù, al centro del rogo. Un incidente, certo. Una cicca o magari un pezzo di vetro al sole. La foresta prende fuoco facilmente, in questa stagione. Soprattutto se è intrisa di gasolio. Un disgraziato incidente, come al solito, e poi tanto spazio per il bestiame dove la foresta non può più ricrescere. Un incidente come quello che capitava due volte l’anno anche a lui, quando doveva eliminare i residui di segheria dal patio senza passare per le lungaggini della Segreteria statale di protezione dell’ambiente: Ramiro passava di là, la cicca in un angolo della bocca, e poco dopo veniva a spiegare del tragico incendio. Gli unici che obiettavano, talvolta, erano gli assicuratori, a San Paolo e a Zurigo, ma visto che di danni materiali non ne chiedeva mai, alla fine abbozzavano anche loro, e aumentavano sia pur marginalmente il prezzo del premio annuale. Aveva anche pensato di non dichiararli, gli incendi. Ma per una certa superiorità tracotante da vero gringo, gli risultava difficile mentire in un’autocertificazione in tedesco, quando invece in portoghese era pronto a giurare il falso davanti a un notaio.

Carlo Calabrò

Carlo Calabrò, nella foto di Michelle Sierra Laffitte

La zattera toccò la sponda opposta del fiume, mentre Kaufmann spegneva la cicca sotto lo stivale.

«E anche oggi i pontieri non li abbiamo visti, vero Carlinhos?»

Il manovratore Carlinhos era un uomo bassino, robusto, senza collo e senza età, come tanti nella foresta. A considerarne le rughe del viso, avrebbe potuto avere oltre sessant’anni. L’agilità e la forma fisica ne suggerivano però una trentina abbondante in meno. Carlinhos rise.

«Doutor, non li vedrà mai neanche mio figlio Josué, i pontieri!»

«E meno male. Altrimenti che gli fai fare quando diventa grande?»

«Veramente la zattera la sa portare già.»

«Ma se ha quattro anni!»

«E appunto. L’anno scorso ha cominciato. Magari da solo di notte non lo lascio andare, ma di pomeriggio se la cava tranquillamente.»

«Meglio così. Se fanno il ponte, i camion passano più facilmente.»

«E a lei non conviene, Doutor?»

«Sì. Ma conviene di più ai Kowalski, che oltre ai legnami hanno le vacche. E poi coi camion prima o poi diventa conveniente anche coltivare la soia, e appena comincia la soia, in meno di dieci anni non rimane più un albero in tutta la regione.»

Carlinhos annuì, più per educazione che per comprensione: le preoccupazioni ecologiste erano soltanto un’altra delle tante eccentricità di quel gringo – in Brasile è gringo qualsiasi straniero, non solo gli americani –, come il blazer di lino blu. In assenza di altri passeggeri in attesa, da un lato o dall’altro del fiume, decise di fare una pausa.

Kaufmann gli offrì una sigaretta e rifiutò in cambio un sorso di birra. Si ricordò delle tavolette di cioccolato comprate in città e ne allungò una al manovratore, per Josué. Risalì, mise in moto, salutò Carlinhos con un cenno e ripartì lentamente lungo la seconda metà dello sterrato, pomposamente battezzato Transpacífica da un governo più comunicativo che efficace.

Transpacífica. Ogni volta che la percorreva, più o meno settimanalmente, Kaufmann pensava ai camion di soia che sarebbero dovuti passare di là, provenienti da aree già ampiamente disboscate e quindi “sviluppate”, per poi caricare – in Perù! – le navi per la Cina. Pensava ai camion, guardava la strada, e rideva. A ogni passaggio sulla zattera chiedeva a Carlinhos notizie dei famosi ingegneri cinesi che avrebbero dovuto costruire, secondo il governo, un bel ponte a tiranti su quel tratto d’acqua, per accelerare il passaggio. Non si erano mai visti, naturalmente. Ma non si erano mai visti neanche i camion di soia, se è per questo: soltanto un pazzo avrebbe scelto di passare di là, se non per caricare legname o carne. La zattera, alla fine, non era neanche il tratto più fastidioso del percorso, rispetto alle voragini e alle pietraie della strada sterrata che la precedeva e che la seguiva. Solo il tratto dall’approdo di Carlinhos al villaggio, con un camion carico, si percorreva in oltre tre ore.

E d’altra parte soltanto un pazzo, o uno stupido, avrebbe potuto comprare una segheria a oltre duecentocinquanta chilometri di sterrato dalla città più vicina. Pazzo, si ripeté. Pazzo e in fuga dalle responsabilità eccessive della sua vita a San Paolo, dal rapporto con Diana e dal fantasma di Marta. Stupido no, invece, non pensava certo di esserlo. Ma sperava di trovarne uno, uno stupido per davvero, cui ripassare il problema quanto prima.

(continua in libreria…)

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