Sarah Maestri, attrice di successo, aveva poche certezze nella vita. Una di queste era che non provava il desiderio di avere un figlio. Si sentiva realizzata con il suo lavoro, la sua famiglia e i suoi amici. Fino a quando uno di loro le chiede di ospitare per qualche giorno una bambina che vive in orfanotrofio, venuta in Italia per le vacanze. In “Stringimi a te” racconta l’incontro con questa bambina, che poi ha adottato, e che le ha cambiato la vita – Su ilLibraio.it un estratto

Ha esordito sul grande schermo nel 2001 con I cavalieri che fecero l’impresa di Pupi Avati e ha raggiunto la notorietà con Notte prima degli esami di Fausto Brizzi (2006). Ma Sarah Maestri, oltre che attrice, è anche autrice. Ha appena scritto il suo secondo libro, Stringimi a te (Garzanti), la storia vera di come è riuscita ad adottare sua figlia.

Sarah Maestri Stringimi a te

Sarah, infatti, aveva poche certezze nella vita: una di queste era che non provava il desiderio di avere un figlio. Si sentiva realizzata con il suo lavoro, la sua famiglia e i suoi amici. Fino a quando uno di loro le chiede di ospitare per qualche giorno una bambina che vive in orfanotrofio, venuta in Italia per le vacanze. Con un po’ di incoscienza, Sarah accetta. Ancora non sa che quell’incontro le cambierà la vita.

Alesia entra nella vita di Sarah per non uscirne più. Giorno dopo giorno, quella bambina le insegna a non avere paura dell’amore e la trasforma in ciò che ha sempre temuto di diventare: una madre. Non solo nei momenti felici, ma soprattutto in quelli più difficili, in cui gli ostacoli sembrano insormontabili.

Sarah Maestri è riuscita a adottare Alesia dopo anni di battaglie. È stata una delle prime donne single in Italia a farlo. In questo romanzo narra come una madre abbia trovato, senza saperlo, la figlia che ha sempre cercato.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto

Ma com’era arrivata da me quella bambina? Quando ricevetti la chiamata che avrebbe dato inizio a questa incredibile storia, mi trovavo a Međugorje. Ci ero andata senza sapere bene cosa stessi cercando. Forse solo un po’ di pace. Avevo deciso di partire alla scoperta di quel luogo di cui avevo tanto sentito parlare. Era un momento particolare della mia vita.

Scrivere La bambina dei fiori di carta, ripercorrere tutto il dolore che inconsciamente avevo subito da piccola, mi aveva profondamente toccato. Poi c’era stata la malattia che era tornata a farmi visita, e l’ospedale vissuto da adulta non mi aveva regalato la stessa sensazione di gioco che serbavo nei miei ricordi d’infanzia.

Benché la mia vita fosse tornata alla normalità, vissuta tra un set e l’altro, e la mia salute non destasse più preoccupazione, sentivo che nel cuore mi mancava qualcosa per essere felice. Mi sembrava di avere tutto, ma cercavo ancora un senso, una risposta; volevo trovare la strada tracciata per me. Nonostante le premesse e la sacralità del luogo non fu la Madonna a chiamarmi – o almeno non lo fece al telefono. Ero seduta su un muretto del Podbrdo, ai piedi della collina delle apparizioni, assorta nei miei pensieri. Intorno a me, una gran folla si muoveva verso quel luogo.

Osservavo incuriosita quelle persone accalcarsi attorno alla veggente con un vociare indistinto ma forte che intonava ripetute Ave Maria in diverse lingue, unite a canti sacri. Altri, invece, non pregavano, perché troppo intenti a chiacchierare o a scoprire tra le bancarelle qualche souvenir al prezzo più conveniente. Neanche fossero in vacanza.

Io restavo lì in silenzio a chiedermi, all’alba dei miei trent’anni, che senso avesse la mia vita. Ma ecco che, mentre canti e preghiere si sopivano e la veggente annunciava l’arrivo della Madonna, un trillo insistente interruppe il profondo silenzio carico di attesa. La suoneria di un cellulare, nulla di più profano. Prima un suono lieve, poi sempre più forte. Tutt’intorno, la gente iniziò a toccarsi la borsa e le tasche, e poi a scambiarsi occhiate minacciose, in contrasto con il luogo in cui si trovavano e il motivo per cui erano lì: venerare la Regina della Pace. Il trillo continuava imperterrito. Fu presto chiaro a tutti, tranne che a me, che ero io la colpevole.

«Scusate, ora lo spengo…» bofonchiai mentre cercavo disperatamente il telefono nella borsa che, all’improvviso, si era trasformata nella magica valigia di Mary Poppins. Quando finalmente lo trovai feci per spegnerlo, ma mi accorsi che era Carmine, un mio carissimo amico. Non resistetti e risposi. «Carmine, scusa, ora non posso parlare», sussurrai tutto d’un fiato, coprendo la bocca con una mano.

Ma Carmine mi incalzò, impedendomi di chiudere: «Sarah, ho un problema urgente da risolvere. Sei disposta ad accogliere una bambina bielorussa di otto anni per qualche giorno?».

Quella strana richiesta mi pietrificò. «Una bambina? In che senso?» chiesi a bassa voce tra gli sguardi minacciosi delle persone intorno a me, che non intonavano più l’Ave Maria, ma dei sonori «ssh-ssh!».

«È una bambina di Černobyl’. Ti ricordi di Černobyl’?» mi chiese.

«Sì, più o meno», risposi incerta. Černobyl’ era un lontano ricordo della mia infanzia. All’epoca frequentavo la prima elementare, e di quei giorni rammento solo il volto preoccupato di mia madre davanti al telegiornale. Mi vietò di bere latte e mangiare verdure crude – non un grande sacrificio per me, che preferivo di gran lunga insaccati e carboidrati. Da oltre trent’anni l’associazione di cui Carmine fa parte organizza l’accoglienza in famiglie italiane di bambini provenienti da Bielorussia e Ucraina, i paesi più colpiti dal disastro nucleare: allontanandoli dalle aree contaminate, dà loro la possibilità di disintossicarsi dal cesio e di nutrirsi di cibi «puliti».

Le conseguenze dell’incidente, infatti, hanno proiettato la loro triste ombra fino a oggi e, in quelle zone, le radiazioni presenti negli alimenti e nell’acqua causano ancora nei bambini gravi patologie.

«L’Italia è il paese europeo che accoglie il maggior numero di questi ragazzi e ragazze», mi spiegò Carmine, con orgoglio. Non osai chiedergli come mai avesse pensato proprio a me e accettai senza pensarci troppo. D’altronde, come potevo dire di no? A Međugorje ci si sente tutti più buoni.

«Ok, nessun problema. Quando arriva?» «L’11 giugno all’aeroporto di Fiumicino, ma sarà solo per qualche giorno, giusto il tempo di trovarle una famiglia che possa accoglierla per tutta la durata del progetto e magari oltre…»

«In che senso? Quanto dura il progetto? Di che cosa parli?»

«I bambini di Černobyl’ possono restare in Italia centoventi giorni l’anno, divisi in tre periodi: estate, Natale e primavera. I minorenni sono accompagnati da un’educatrice bielorussa che ne ha la responsabilità per tutto il periodo del viaggio e del soggiorno. La maggior parte dei bambini sono accolti in una famiglia formata da madre e padre», mi spiegò nel dettaglio. «Ma questa bambina rischia di restare in orfanotrofio in Bielorussia da sola per tutta l’estate. Capisci? Qualche giorno da te e poi troviamo qualcuno che se ne occupi.»

«Be’, lasciarla sola in orfanotrofio no… Dai, falla venire che poi ci organizziamo.»

Neanche un secondo per rifletterci, giusto il tempo di tornare a casa qualche giorno dopo, posare le valigie, cambiarmi d’abito, arrivare all’aeroporto e darle il benvenuto nella mia vita. Allora non avrei mai immaginato che dalle ceneri e dalle polveri di quella tragedia immane sarebbe potuto nascere il dono d’amore più grande che la vita potesse farmi: un meraviglioso scricciolo con pochissimi chili addosso e una risata tanto contagiosa da far sorridere chiunque. Una bambina capace di abbattere i muri che fino a quel momento circondavano il mio cuore, riuscendo a trasformarmi in ciò che da sempre avevo paura di diventare: una madre.

© 2022, Garzanti S.r.l., Milano

(continua in libreria…)

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Fotografia header: Sarah Maestri Foto di Fabio Di Girolami

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