“Non siamo al mondo per metterci al servizio della vita di nessun altro. No, nemmeno in quanto madri”. Abbiamo intervistato Stefania Andreoli, psicoterapeuta, Giudice Onorario del Tribunale per i minorenni e divulgatrice di successo (dalla radio ai social), ora in libreria con “Lo faccio per me. Essere madri senza il mito del sacrificio”: “Se una madre non si riappropria della propria dignità come individuo, prima ancora che come madre, rischia che a farne le spese sarà proprio quel figlio a cui ha creduto di doversi dare in pasto per essere la migliore genitrice possibile…”. E sui rischi legati al proliferare di psicologi sui social network: “Mi capita spesso di imbattermi in account più o meno riconoscibili, colleghi con nome e cognome o pagine di psicologia, dove mi spaventa l’idea che l’utente medio possa non accorgersi che il loro scopo è puramente quello di produrre contenuti appositamente studiati per poter far circolare l’account, per ottenere grandi numeri e per trarne una serie di benefici correlati”

Quando chiamo Stefania Andreoli per realizzare questa intervista la colgo mentre è in auto. Sta raggiungendo le figlie all’uscita da scuola per fare loro una sorpresa prima di ripartire alla volta di Alba per una nuova presentazione del suo libro. Una parte della nostra chiacchierata avviene mentre loro sono sedute in macchina con lei, in assorto e complice silenzio.

Tenere insieme tutto. O almeno provare a farlo.

Stefania Andreoli lo faccio per me essere madri

In Lo faccio per me. Essere madri senza il mito del sacrificio (Rizzoli), la psicoterapeuta autrice di numerosi libri di successo come Mamma ho l’ansiaPapà fatti sentire e Mio figlio è normale? tutti editi per BUR, rifugge qualsiasi tipo di ricetta.

La maternità è un concetto plurale, ampio, inclusivo come la sua stessa esperienza di Giudice Onorario del Tribunale per i minorenni di Milano le ha insegnato, avendo a che fare con approcci etnici e culturali differenti su cosa significhi essere genitori. Non esiste un unico modo di essere madri, ma persistono ancora tanti, troppi, preconcetti su quello che una “buona genitrice” dovrebbe fare o essere. Prima su tutti quella narrazione che vuole nella donna il personaggio sacrificale e sacrificato che muore sempre un po’. “Non siamo al mondo per metterci al servizio della vita di nessun altro. No, nemmeno in quanto madri” è la sentenza di Stefania Andreoli, che aggiunge: “Di mestiere, sono scomoda”. E lo è anche proponendo a tutte le persone che la seguono sul suo account Instagram o attraverso le sue apparizioni in tv e radio (tra cui Catteland di Radio Deejay) che ognuno di noi alla domanda: “Qual è la persona più importante della tua vita?” dovrebbe rispondere con un sano: “Io”.

Persino, anzi soprattutto, una madre.

“Perché della maternità adoriamo il sacrifizio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell’immolazione materna?” Sibilla Aleramo, che lei cita in esergo, sembra aver anticipato i contenuti del suo libro.
“Avrei potuto finire il libro con l’esergo, perché è già tutto condensato lì”.

Il potere e l’efficacia della letteratura.
“È vero. Si tratta di parole scritte negli anni dieci del secolo scorso e trovo spaventante, più ancora che spaventoso, che ci troviamo ancora alle prese con una revisione critica di questo concetto più di cent’anni dopo”.

Qual è stato allora il suo lavoro?
“Ho voluto mostrare con questo libro come non solo questa visione sia un inganno, che non poggia i piedi su un terreno saldo, ma che possa produrre esattamente l’opposto. Se una madre non si riappropria della propria dignità come individuo, prima ancora che come madre, rischia che a farne le spese sarà proprio quel figlio a cui ha creduto di doversi dare in pasto per essere la migliore genitrice possibile”.

E tutto questo è inumano?
“L’Aleramo ci lascia ben intendere che è davvero un’invenzione, ‘un’inumana idea’, quella del sacrificio associato alla maternità. Avviene dal principio dell’umanità. Si è trattato a tutti gli effetti di una costruzione culturale che di scientifico non ha nulla, né dal punto di vista strettamente evolutivo, né da quello psicologico. È stato spacciato per natura, costringendo le donne ad adeguarsi per seguire un’inclinazione considerata comune a tutte. Occorre smantellare tutto ciò”.

Lei scrive: “Non siamo al mondo per metterci al servizio della vita di nessun altro. No, nemmeno in quanto madri”.
“Avevo a cuore di dire proprio questo: se tu mamma cerchi di essere a tuo agio e coerente con te stessa, con la tua natura, non di femmina, ma di individuo non replicabile, e non con un’idea di maternità sacrificata e sacrificale, allora agiscila, perché questa può essere solo una tua scelta. Sappi però, che se credi di farlo per tuo figlio, stai mentendo, a te e a lui. Qualunque cosa tu faccia per te stessa, compresa questa, è ammessa. Però non pensare che serva a far diventare grande tuo figlio. È più probabile che tu lo stia facendo per non deludere gli altri”.

Cerca quindi di sfatare il mito dell’istinto materno, affermando che madri non si nasce, ma si diventa. In tal senso menziona il popolo pigmeo degli Aka.
“Si tratta di un popolo dell’Africa Occidentale: nella loro tribù sono le donne a lasciare il villaggio per andare a caccia, mentre i bambini restano insieme ai papà”.

Non vorrà sfatare troppi miti tutti insieme?
“Il mio scopo è quello di mettere nel libro e nel mio lavoro, i puntini sulle ‘i’, ma senza mandare tutto al macero e senza perdere gli opportuni distinguo. Di naturale c’è che biologicamente veniamo al mondo uomini e donne. È evidente che a un corpo femminile, nella stragrande maggioranza dei casi, corrisponde anche un’anima femminile con delle caratteristiche adatte alla procreazione, al parto, alla gestazione, all’allattamento. Ma ciò non significa che per ogni donna l’esperienza sia trasversale, democratica, uguale o responsabile”.

La distinzione tra “maternità di ruolo” e “maternità di relazione”.
“Lo spiega Judith Stadtman Tucker ripresa da Orna Donath nel suo mirabile saggio Pentirsi di essere madre. Ogni donna ha i suoi tempi per riuscire a rimanere incinta. Ogni gravidanza è a se stante anche quando la stessa donna ne ha più di una. Ogni parto e ogni esperienza con l’allattamento lo è, anche se tutte abbiamo lo stesso corpo, fatto di grembo e fatto della capacità di accogliere. Ciò posto, però, la biologia e la natura finiscono qui. Perché la verità è che una volta che quel bambino esiste, è a sua volta soggetto. Quindi che madre sarai non può essere stabilito a priori, non può essere biologicamente determinato, ma dipenderà dal figlio che sta dall’altra parte della relazione”.

Questo per lei è un elemento centrale.
“Lo è perché purtroppo, anche se dovrebbe essere ovvio, siamo portati a pensare che un figlio diventi soggetto solo da grande. Ma un figlio, dacché vede la luce, è un soggetto in grado di stimolare la madre, di fare delle richieste, di dire delle cose attraverso il pianto che sono del tutto personali. E questo susciterà nella madre risposte diverse e farà nascere madri diverse che a seconda dell’età che hanno, di quanto sia felice la loro storia d’amore e di quanto siano impensierite rispetto al lavoro, mostreranno una miriade di differenze l’una dall’altra. E questo non è per nulla istintuale: lo scopri vivendo”.

Nella sua esperienza di giudice del Tribunale dei Minori si è trovata a che fare con donne appartenenti a culture altre, che hanno una concezione della maternità spesso distante dalla nostra. Come ha approcciato queste diversità?
“Attraverso un accurato lavoro di studio e di comprensione del valore che il loro gruppo etnico attribuisce all’avere dei figli. Tanto che ho deciso di intraprendere un nuovo master. Troppo spesso mettiamo addosso ai modelli delle altre madri il nostro parere. Generalmente è un tentativo di rinfrancarci del fatto che stiamo agendo nel miglior modo possibile. Ma l’idea che la madre sia un unicum è la peggiore delle gabbie possibili sul materno”.

In che modo?
“L’attività di giudice mi ha consentito l’incontro con madri altre, che di fatto mettono in campo delle azioni lontane sicuramente dalle nostre, ma in modo molto credibile e autentico. Quando tu parli con loro e le interroghi sulla natura delle loro scelte, riscontri come, dietro al loro essere genitori, non c’è traccia di incuria. E quello che va bene per noi, per la nostra cultura occidentale, non necessariamente è l’unica via”.

Ci faccia un esempio.
“Le madri nigeriane mi hanno spiegato che per loro è incomprensibile tutta l’importanza che attribuiamo al dare a un bambino un tetto, un letto, un posto confortevole. Loro non trovano niente di male a stare ad agosto tutto il giorno in spiaggia con il loro bambino nella fascia, mentre provano a lavorare. ‘Se il mio bambino è con la sua mamma, è in paradiso’, mi hanno detto. Abbiamo bisogno, anche attraverso questi racconti e queste scoperte dell’altro, di concederci di identificare le prove empiriche che non c’è un solo modo di essere madre”.

Da qui la volontà di “restituire la maternità alle madri”.
“Sì perché non abbiamo lasciato esprimere alle mamme, culturalmente, sociologicamente e antropologicamente che cosa avessero da dire sulla maternità. È stato messo addosso a loro da fuori, dall’ordine costitutivo, dal bisogno maschile che le donne facessero le madri in un certo modo, cioè stando a casa e ritirandosi dalla vita pubblica. È stato un bisogno patriarcale per reggere tutta una serie di equilibri”.

E adesso a che punto siamo?
“Il giro di vite è restituire alle mamme la possibilità di parlare delle loro esperienze e non avere più la presunzione di pensare che, al di fuori di quell’esperienza singolare e soggettiva, qualcuno possa ritenere di dire la propria”.

Eppure sulla missione di Samantha Cristoforetti ne sono state dette molte…
“Ci troviamo nel 2022 a domandare a un’astronauta se faccia bene a lasciare i figli a casa. Io mi vergogno. Se fosse un uomo, non glielo chiederemmo. A una donna che svolge uno dei lavori più difficili di sempre, uno dei percorsi di studio più sfidanti e più esclusivi di tutti, si chiede a chi lascia i figli? Sono umiliata da domande di questo tipo”.

Tuttavia della paternità dei suoi colleghi maschi sembra non sia mai importato più di tanto.
“Esatto. Per questo il mio libro vuole essere un tentativo di dire: ‘Guarda che possiamo non farci fregare, possiamo cominciare a dettare noi le nostre regole. E dobbiamo farlo da una voce femminile che sappia di cosa si sta parlando'”.

E lei ascolta tante voci femminili con la sua rubrica su Instagram Il martedì delle parole. Tante sono le richieste, compresi i consigli di lettura.
“Le future mamme mi chiedono spesso indicazioni di lettura. Io dico che va bene tutto: Biglietto blu di Sophie Mackintosh, La Pastorale Americana di Philip Roth, Libertà vigilata. Perché le donne sono diverse dagli uomini di Elena Loewenthal, Charles Bukowski, ma anche la biografia di Mike Buongiorno. Ancora una volta, coerentemente con l’assetto del libro, il piatto principale è chi sei tu, cosa ti piace, quale sia il tuo gusto e allora potrai trovare dovunque una metafora o un aforisma da portare con te”.

Qual è il suo rapporto con la lettura?
“La mia capacità di lettura è direttamente proporzionale a quanto io stia bene. Riesco a leggere quando il tempo del lavoro me lo consente, ma soprattutto quando la mente è sgombra. E allora leggo in maniera compulsiva, perché in quel momento la mia vita è un buon posto dove stare e io sono allineata con me stessa”.

Lei cita spesso anche film e serie tv: dal premio Oscar Nomadland al film francese 17 ragazze fino a The Big Bang Theory, dalla serie Maid al sequel di Sex & The City, un vero melting pot.
“Sì, e mi definisce in maniera abbastanza specifica. Però al di là dei miei gusti, mi piace tenere insieme tutto. Spazio dal cinema indipendente ai riferimenti più pop. Sono fermamente convinta che si trovi qualcosa dappertutto. Se si sta in ascolto, se si è ricettivi, ogni narrazione parla e dice quello che forse ti serve sentire in quel momento”.

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Il mese scorso si è salutata l’estensione del cognome materno ai figli come la fine di un tabù. È davvero così?
“Prima ancora che festeggiare, dovremmo capire che stiamo festeggiando in ritardo. Tuttavia credo che sia un ulteriore piccolo segnale che tutto sta concorrendo a una rivisitazione del Vecchio Mondo. Le cose devono cambiare, non possono rimanere come sono sempre state. ‘Perché è sempre stato così’ è la peggiore risposta che possiamo dare, l’errore più corto e più vigliacco, oltre che il meno intelligente”.

Come vede il proliferare degli psicologi sui social network?
“Temo che racconti di una cosa che dobbiamo accettare come evidenza e cioè che non stiamo bene. Non abbiamo nemmeno più la possibilità di nasconderci dietro a un dito. Tutti i tentativi divulgativi o di fare cultura psicologica con il proliferare di questi account è un segnale di intercettazione di un bisogno”.

Ma possono fare bene?
“Sì, prima ancora che alle persone, alla psicologia stessa, cioè alla costruzione di un pensiero buono, di un’idea intellettualmente onesta, di che cosa significhi davvero il prendersi cura di sé, la terapia. E quindi decostruire tutta una serie di stereotipi vuoti”.

Dunque niente da obiettare?
“Non proprio. Quando il mio account Instagram è diventato così apprezzato e seguito, non era in programma. L’obiettivo non era fare la psicologia sui social. È successo e credo che abbia avuto una certa fortuna, perché di fatto il modo in cui uso i social network è consentire di sbirciare dal buco della serratura quello che è il mio reale mestiere sul campo”.

Tuttavia…
“Tuttavia io non lavoro su Instagram. Porto il mio know how, la mia esperienza, trovo un linguaggio per poterlo condividere con i followers o con chi ne ha bisogno in quel momento. Però se Instagram chiudesse domani, la mia pratica clinica, il mio studio e la mia ricerca non verrebbero mortificati”.

Ci sono dei suoi colleghi che sembra abbiano lì la loro principale attività.
“Mi capita spesso di imbattermi in account più o meno riconoscibili, colleghi con nome e cognome o pagine di psicologia, dove mi spaventa l’idea che l’utente medio possa non accorgersi che il loro scopo è puramente quello di produrre contenuti appositamente studiati per poter far circolare l’account, per ottenere grandi numeri e per trarne una serie di benefici correlati”.

Qual è allora il rischio?
“Il rischio è che, anziché venire esaltata, la professione dello psicologo e della cura vengano sviliti, perché qualcuno vi ha intravisto un business. E molte persone possono essere portate a fidarsi di chi questo mestiere probabilmente non lo esercita, ma si limita a raccontarlo. Io richiamo tutti a un rigore che secondo me su internet deve essere ancora più accurato e accorto, che non, per assurdo, nella relazione con il paziente reale”.

Addirittura?
“Sì, perché quando si incontrano le persone in terapia si ha modo di aggiustare il tiro, di fare un percorso. Su Instagram e su internet una cosa resta per sempre. Un fraintendimento può essere oggetto di una shitstorm che non ti togli di dosso. Contenuti proposti in maniera grossolana, superficiale o scarsamente competente rischiano di deviare anche la cultura che si fa rispetto a certi argomenti. Occorre molta attenzione”.

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Fotografia header: Stefania Andreoli (foto di Cristiano Zabeo)

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