“Penso alle mie amiche con cui abbiamo viaggiato, bevuto, fumato, pianto. Tutte madri o in procinto di”. Su ilLibraio.it la riflessione della scrittrice Giusi Marchetta, a partire da alcuni libri usciti di recente (e non solo): “Sono sicura che non esista una storia unica della maternità… e ogni gravidanza mi sembra possa diventare una storia a sé”

C’è una parte del locale in cui ci siamo fermate che piace molto a Valeria perché è in discesa. Il gioco è semplice: a occhi semichiusi e braccia allargate l’obiettivo è fiondarsi verso il vuoto con l’irrazionale sicurezza di chi ha da poco imparato a camminare.

“Tu che cosa provi per i nostri bambini?” mi chiede Elena ed è una domanda così bella che non posso rispondere subito per non mentire.

Lascio che vada a recuperare Valeria che l’aspetta fiduciosa in fondo alla discesa, e penso alle mie amiche incinte e agli amici con una bimba in braccio. A giugno toccherà a mia cognata, a mio fratello. Eravamo tutti single, poi in coppia e adesso, a quanto pare, aumentiamo di numero, ci moltiplichiamo. O almeno lo fanno loro.

Elena trascina Valeria fino al tavolo, la mette seduta sulle sue ginocchia. Che cosa provo per lei? È simpatica, coi riccioletti e le facce buffe di chi vive andando a tentativi. La conosco da quando non c’era e la cosa mi tocca, mi sembra una magia che sia spuntata a un certo punto, dopo anni di cene e confidenze con questa donna che ha la mia età e che adesso è la madre di qualcuno e che per i prossimi dieci anni non entrerà mai in una stanza senza notare tutti gli spigoli dei tavoli e le prese scoperte.

Penso alle mie amiche con cui abbiamo viaggiato, bevuto, fumato, pianto. Tutte madri o in procinto di. Decido di mentire ma poi non lo faccio anche se ho paura di offenderla.

“Non lo so” dico. “Credo di amarli perché sono un’estensione di voi.”

Elena sorride. Non si offende.

Siamo tutti nati da donna: non c’è argomento che ci riguardi di più. Eppure ne parliamo come un affare da donne da sbrigare secondo regole che gli uomini hanno imposto molto tempo fa.

La maternità è un dovere, la realizzazione completa di un corpo provvisto di utero; è una gioia, sempre e comunque. Sacrificio, anche, ma da abbracciare con un senso di pienezza e gratitudine per quel dono che tante vorrebbero ricevere.

Il dolore del parto si dimentica, e quello dell’allattamento, e quello del punto del marito, l’ultimo aggiunto per ricucire bene quello che è stato lacerato perché torni a funzionare presto.

La maternità è una lente, un binocolo ma anche un microscopio: se non sei madre non puoi capire. Il mondo assume un altro passo che sta tra la pace e la costante minaccia; il tempo si riempie finché non resta niente al di fuori di quello condiviso col bambino. Di madre ce n’è una sola, di padri uno o nessuno o anche centomila. Tutti senza diritto al congedo di paternità perché c’è già la mamma e quindi non c’è bisogno.

Ma se non fosse così? Se una madre non si sentisse madre immediatamente dopo il parto? Se la sua storia divergesse da questa figura onnipotente di donna che si cura di tutto, che è pronta ad accogliere anche fuori chi per nove mesi ha tenuto al sicuro nel suo grembo?

la sostituta

Nella graphic novel La sostituta scritta da Sophie Adriansen e illustrato da Mathou (Beccogiallo) la nascita della piccola Zoe corrisponde all’inizio di una maternità obbligata e ci sarebbe bisogno di una sostituta che prendesse il posto di Marketa e facesse tutte le cose che ci si aspetta da una “Wondermamma”. È strano e bello leggere di una maternità che comincia solo quando la protagonista riacquista un rapporto con se stessa e con il proprio corpo. Prima però la scrittrice ha dovuto affrontare la parte buia di una storia che non si racconta, esponendo una vulnerabilità che leggiamo a volte negli occhi di una nostra amica a pochi giorni dal parto, quando la sofferenza del corpo è ancora fresca, il sonno perso li affatica e la voce trema un po’ nel dire che non è stato brutto come pensava. Che è stato più brutto. Ho letto La sostituta e solo dopo ho pensato alle risposte automatiche che diamo, ai nostri goffi e crudeli tentativi di cambiare discorso. “Sì, ma è andato tutto bene alla fine, no? È bellissima questa ragazzina”.

Sono sicura che non esista una storia unica della maternità. Sono abbastanza certa che la storia più raccontata abbia un valore politico, che serva, con i suoi cliché, gli stereotipi che ha consolidato nei secoli, a rinchiudere le donne in un ruolo di cura e accudimento dell’altro (del bambino e per esteso della famiglia) che ha svolto così a fondo da innamorarsene, da farne un motivo d’orgoglio in mancanza di altri ruoli, di altre possibilità.

Sono altrettanto certa che ci sia una verità misteriosa e non detta nella maternità di ogni donna, qualcosa che somigli ai cliché, qualcosa che se ne distacchi del tutto. Se è vero che le cellule fetali entrano nel corpo della madre attraverso il sangue e viceversa, ogni gravidanza mi sembra possa diventare una storia a sé, ogni maternità potrebbe esprimere qualsiasi forma questo rapporto decida per i due esseri coinvolti, in base al loro contesto fatto di aria, cibo, persone, alla loro storia che è fatta di un passato vissuto da soli, di un presente comune, di un futuro che è solo una promessa.

Mor storia per le mie madri

Non una ma tante maternità quante madri ci sono sulla terra, dunque. Questo rende più difficile raccontare la propria storia, soprattutto quando è terribile come quella che ha illustrato Sara Garagnani nella sua graphic novel Mor (Add). Siamo tutti nati da donna e con questa donna facciamo i conti a volte per la vita o per più vite perché anche chi ci ha concepito ha una storia che comincia con un parto, con uno scambio di geni, di sangue e di educazione ricevuta nel corso di generazioni. Come in un gioco che non abbiamo scelto ci ritroviamo in fondo alla fila e col tempo riusciamo a intravedere a distanza il tratto di strada che hanno percorso i nostri genitori, il modo in cui lo hanno fatto, la violenza che si è abbattuta su di loro; riconosciamo i segni di quella violenza su noi stessi, il loro modo di muoversi nel mondo come il nostro. Chiudere questo libro a fine lettura significa sentirsi pieni di qualcosa di nuovo e di vecchio insieme, desiderare ardentemente di avere ancora una madre con cui ridere o stare in silenzio e che ti guarda come se la tua esistenza la consolasse da qualunque passato.

In Lettera a un bambino mai nato Oriana Fallaci scriveva che “se uno muore vuol dire che è nato, che è uscito dal niente, e niente è peggiore del niente”. Alla fine del libro il feto resta nel niente. Quattro anni dopo, in Un uomo, l’autrice racconta del suo aborto. Anche scrivere qualcuno è farlo uscire dal niente, senza lo strazio del parto.

Leggo Trema la notte, il libro di una brava scrittrice che ha appena avuto una bimba e mi chiedo come scriverà d’ora in poi, in che modo questo piccolo ingranaggio si incastrerà tra i suoi pensieri e la capacità o la volontà di metterli su carta. Sono invidiosa di questa possibilità di sperimentare questa cosa. Mi auguro che la esplori se ne ha voglia e di trovare per me stessa altri ingranaggi che mi spingano in direzioni che non immagino ancora.

Quanto all’essere madre, certo, non posso capire.

Mentre guardo il mio compagno che tiene in braccio Arianna appena nata sotto lo sguardo felice dei suoi genitori appena nati mi dico che c’è qualcosa di estremamente pratico e carnale nel tenerla anche solo in equilibrio senza farla cadere e che è molto molto difficile che io, che fatico a tenere in equilibrio tanti aspetti della mia vita, possa trovare il modo di tenere in braccio un bambino. Per questo, mi dico, io leggo. Per capire.

linea nigra

In Linea nigra (La nuova frontiera) Jasmina Barrera accompagna la sua gravidanza con parole di altre madri, da Mary Shelley che, incinta, scrive la storia di un mostro che chiede perché sia stato creato, a Sylvia Plath e ai suoi versi sul parto, “Non c’è miracolo più crudele di questo”.

È un diario avvincente, scritto con il desiderio evidente di tenere insieme due parti della stessa persona: la madre e la ricercatrice che deve consegnare un saggio. Poi però la vita irrompe: il piccolo Silvestre, un terremoto, una malattia. Il filo che tutte le donne del libro stringono da Natalia Ginzburg a Shirley Jackson a Luz Jimenez le unisce senza avvicinarle mai troppo. Le parole di una si accostano a quelle dell’altra in un mosaico che, mi rendo conto, è necessario. Non più una sola storia della maternità ma tante, tutte.  “Voglio un eccesso di questi libri” scrive l’autrice. “Voglio un canone, una tradizione. E anche libri contro il canone. Nuovi generi letterari”.

Cosa provo per questi bambini? Le figlie con i riccioli e gli occhi dolci dei miei amici e gli altri che nasceranno? La loro esistenza non mi ha sconvolto la vita. Non hanno cambiato il mio rapporto col mondo: non voglio che accada loro nulla di male e che siano sempre nutriti, al caldo, sani e felici, ma non spero nulla di diverso per tutti gli altri bambini e bambine del pianeta.

Qualcosa, però, al tempo stesso è cambiato e mi fa pensare che li amerò davvero e perderò un battito del cuore ogni volta che li vedrò lanciarsi in picchiata lungo una discesa. È una cosa che non dipende da me o da loro ma da una storia che è cominciata molto prima e non ha previsto nessun parto ma è fatta di lunghe conversazioni, viaggi, serate passate a ridere o a litigare, notti insonni, funerali. L’amore moltiplica le cose e, a volte, le persone: eravamo un gruppo di amici e col tempo siamo diventati di più.

Intanto è tornato maggio con la sua festa ostinatamente dedicata alla mamma nonostante le madri mancanti all’appello di anno in anno. Da qualche anno è un mese odioso per me, insopportabile. Questo maggio però penso a mia cognata e al nipote che nascerà e che sarà parte della famiglia di lei e della nostra in modi che non possiamo prevedere e che forse non saranno visibili prima di molti anni; mi dico che un giorno (toccherà a me, a mio fratello o a mio padre) rivedremo nel piccolo quella forma del volto, degli occhi, una smorfia precisa che viene dritta dal nostro passato e che salta fuori a tradimento per farsi consolare e per consolarci della sua assenza.

Anche se non sarà così lo sarà, penso. C’è qualcosa di potente in questa moltiplicazione.

A un certo punto del libro, Jasmina Barrera desidera scrivere ma decide di non farlo perché muovendosi potrebbe svegliare il bambino che ha in braccio. A sorpresa mi piace che non lo faccia e decido di fare qualcosa ogni giorno delle mie braccia vuote, compreso offrirle quando serve a queste bimbe già nate, al figlio di Carmen e a mio nipote che nasceranno, sempre per poco e con la paura di farli cadere.

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