A un passo dal dolore degli altri – degli altri che amiamo – può accadere di scoprirci vivi, fortunati, persino felici: è questo che emerge dalla lettura di “Stelle solitarie”, il nuovo libro di Cristina Marconi – Su ilLibraio.it un estratto
Certe persone hanno con la sofferenza un rapporto confidenziale, e Cristina si è sempre considerata una di queste. Empatica, sentimentale, ma anche bravissima a farsi in quattro per dimostrare che la realtà può essere ridente, nonostante tutto.
La malattia di Luca – marito, padre di sua figlia, amore simbiotico che ha fatto retrocedere a sfondo ogni altra cosa – l’ha attraversata così, sul viso un’espressione rassicurante e spiritata che non riesce a togliersi di dosso neanche ora che Luca sta bene.
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Chi non sta ancora bene invece è Vera, “l’amica zucchero”, che dopo anni di compromessi faticosi con la malattia vuole andare nel posto in cui la cura si affronta con lo stesso piglio ardimentoso della corsa allo spazio, ispirata dalla stessa megalomania: Houston, la città che risolve problemi. E chi meglio di Cristina può starle accanto?
Così comincia il viaggio di queste due amiche quarantenni, che hanno costruito il loro legame sulla capacità di raccontarsi la vita e di farla più divertente di com’è, senza dover mai scegliere tra profondità e frivolezza. La bellezza è il loro principio di realtà: se agli altri serve come evasione, a loro ricorda esattamente ciò che conta, perché nella bellezza c’è anche celebrazione della vita, curiosità, immaginazione e gioco.
Ma adesso Vera, come Luca, sembra aver cambiato luce: è solitaria, assorta, brilla un po’ in disparte rispetto alla sua costellazione originaria. Costretta a rinunciare alle sue ingenue fantasie di accudimento, spesso sola in una città di strade deserte costeggiate da grattacieli scintillanti e villette con il canestro sulla porta del garage, Cristina si dà allora il compito che le riesce meglio: fare di questo viaggio una storia, possibilmente un’avventura.
A un passo dal dolore degli altri – degli altri che amiamo – può accadere di scoprirci vivi, fortunati, persino felici: è questo che racconta Stelle solitarie (Einaudi), il nuovo libro di Cristina Marconi.
L’autrice oggi vive a Milano, ma ha vissuto all’estero per sedici anni, prima a Bruxelles e poi a Londra. Giornalista, nel 2019 ha esordito nella narrativa con Città irreale (Ponte alle Grazie) con cui ha vinto i premi Rapallo Opera Prima e Severino Cesari Opera Prima, oltre a essere entrata nella dozzina dello Strega. Nel 2021 ha pubblicato A Londra con Virginia Woolf (Giulio Perrone Editore) e nel 2022 Come dirti addio (Neri Pozza).
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto dal secondo capitolo:
La notizia della malattia di Vera è arrivata mentre avevamo tutti un’acuta consapevolezza del dolore, pur facendo il possibile per sembrare spensierati: dissolta la fase piú nera della pandemia, ci illudevamo che il tempo sarebbe ripartito da dove si era fermato, come dopo un sortilegio, un brutto incantesimo. I giochi della vita ci sembravano iniziati da poco, pareva quasi di avere tempo per ambientarci ancora meglio, soprattutto in quell’equilibrio adulto che permette di sostituire la ricerca delle sorprese con le gioie della ripetizione e di una certa preveggenza sul proprio carattere: progetti impostati, figli fatti, timori superati.
Era il momento di essere sereni con cognizione di causa, guardandosi dalla noia come dall’unico eventuale nemico.
Io e Luca già da qualche tempo ci baloccavamo con l’idea di celebrare questo passaggio, o forse di movimentare le cose, mollando gli ormeggi da una città, Londra, che ci aveva accuditi, plasmati, animati per piú di un decennio, e di fare il gesto, all’apparenza controintuitivo, di immettere una certa novità nelle nostre vite proprio tornando nel nostro paese. Avevamo passato gli ultimi due inverni chiusi in casa a guardare i tetti di una città piena di consolazioni – i grandi spazi verdi, l’amore per la libertà, la gentile stravaganza – e a disegnare mappe sghembe di una Milano in cui, ne eravamo certi, saremmo stati perfettamente felici.
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Dei due io ero piú entusiasta, Milano mi sembrava una soluzione a quel vagabondare tra luoghi diversi che aveva segnato la mia vita fino a quel momento, mentre Luca era piú restio a staccarsi dal piacevole anonimato che solo le città davvero mastodontiche regalano: per lui la distanza era un vantaggio, per me era diventata un ingombro.
Quando ne parlavamo eravamo sempre piú tesi del dovuto, ma l’entusiasmo di quei mesi di rinascita ci illudeva di poter camuffare le note stonate in un insieme armonioso.
Una mattina, nell’effervescenza di un giugno soleggiato, seduta al secondo piano di un bus rosso in direzione British Library, avevo ricevuto una breve telefonata, una di quelle in cui il nome di chi chiama e l’orario della chiamata hanno qualcosa di stonato, se messi insieme. Troppo tardi per essere un buongiorno sulla via del lavoro, troppo presto per un pettegolezzo da pausa pranzo.
Vera… un problema… nuovi esami…
Abbiamo riattaccato per risparmiarci a vicenda la fatica di dire qualcosa di intelligente. Scesa dal bus, mi sono fatta largo nella confusione di King’s Cross come se la piazza stessa pulsasse al ritmo delle mie tempie. Tempie che hanno continuato a contrarsi anche mentre attraversavo il grande cortile della biblioteca, entravo nell’atrio spazioso e prendevo posizione nella sala di lettura, tra i legni chiari e le soffici poltroncine verdi di pelle. Poi nella mia testa è calato un silenzio innaturale e per tutta la mattina mi sono dedicata alle mie ricerche con una concentrazione assoluta, la stessa che si ha quando si sta per finire un compito e qualcuno ci sta mettendo fretta, incombendo fastidiosamente alle nostre spalle. All’ora di pranzo ho raggiunto una collega in un parco, abbiamo mangiato un panino al sole e mentre mi raccontava problemi che fino a quella mattina mi sarebbero parsi di tutto rispetto, ho avuto la tentazione di dirle ciò che avevo appena saputo, come a volerne soppesare la portata, testarne la capacità di sopravvivere alla luce. Ho deciso che era inopportuno inserire un masso nero tra le perle di un rosario di piccole disavventure, me lo sono trascinato fino a una panchina appartata, circondata dalle rose già un po’ mature di fine primavera e con un bel prato davanti per respirare.
Il mio dito ha preso la rincorsa sullo schermo del cellulare, la chiamata è partita, ho trattenuto il fiato. Vera ha risposto dopo qualche squillo. Ho sentito il trambusto di un telefono caduto dalle mani, il rimestio degli oggetti tra cui veniva ripescato, poi la sua voce calma, uguale a quella di sempre, intonare un motivetto: «Neoplasia neoplasia, o è solo il frutto della mia fantasia?» Aveva già tradotto quella rasoiata di notizia nel linguaggio giocoso della sua vita, Vera.
© 2024 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano
(continua in libreria…)
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