Ci innamoriamo dell’amore? È giusto mostrare solo i propri lati migliori? Al cuore si comanda? Come possiamo mantenere le giuste distanze? La fedeltà è davvero così importante?

È in libreria “Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia” di Ilaria Gaspari

Su ilLibraio.it un capitolo, in cui l’autrice traspone in forma romanzata la teoria dell’amore di Spinoza

(…)

«Ma era fidanzato!» La Filosofia si sentiva bruciare le parole sulla punta della lingua. Poi però si ricordò che qualche volta ci si indigna solo perché si è convinti di non potersi permettere i comportamenti che si biasimano.

Pensò che lei pure, in una situazione del genere, si sarebbe lasciata baciare, lei che non era mai stata baciata, e con un sospiro ricordò che un suo punto d’onore era quello di cercare di non deridere gli esseri umani, non compiangerli, non giudicarli o criticarli; o quantomeno, di farlo il meno possibile. Lei, soprattutto, doveva e voleva capire – e ora quasi se ne dimenticava, tanto era presa dalla vicenda.

«Ma quando è stato» chiese allora, con una certa cautela, «che hai iniziato a… diciamo… prendere in considerazione l’ipotesi di esserti innamorata, come mi dicevi ieri sera?»

Era stato nel momento in cui si era resa conto che, quando era con lui, era più felice.

Era come se, dalle loro conversazioni, dai momenti che passavano insieme, dai pensieri di lei in cui lui era presente, si levasse una forza bizzarra, che finiva per abbracciare tutti i giorni, tutte le ore e i minuti della vita di Mina, compresi quelli che della sua vita costituivano la maggior parte: cioè i momenti in cui lui non c’era. In lei cresceva, segretamente, l’idea di lui: un’idea fatta un po’ dei ricordi che, senza accorgersene, andavano lentamente costruendo; un po’ di attese vaghe, e di nessuna promessa se non una, che poi non era una promessa: era più un fatto, accaduto in un passato ancora molto vicino, che pareva destinato a riverberarsi sul loro futuro. Lui si era lasciato guardare da lei, mentre lei si lasciava guardare da lui, e si erano detti lo stupore di aver mostrato, per fiducia e tenerezza, la loro paura, intera e nuda sotto gli occhi dell’altro.

Non si erano certo detti che si sarebbero amati per sempre, e nemmeno si erano detti di amarsi; anzi, per la verità non gli era neppure venuto in mente di farlo. Si erano attenuti a un’esemplare parsimonia di parole, ma lui quando lei era stanca l’aveva lasciata dormire e aveva cucinato per lei la prima cosa che le era venuta in mente, la pasta al pomodoro, come si fa per un bambino piccolo: e il ricordo di quella sera, mai evocato ad alta voce, ora le permetteva di sentire vicino a sé, in ogni istante, l’idea di lui che cresceva, cresceva quando era stanca, quando non pensava a nulla, quando pioveva e prendeva il tram per tornare a casa e si trovava sola, in una folla di sconosciuti, fra chiacchiere e cellulari, e le luci delle insegne accese scorrevano oltre il finestrino.

E questa prossimità costante dell’idea di lui la rendeva più felice, ma non di una felicità facile o immediata. Non era per niente serena, Mina, in quel periodo: si trattava piuttosto di una gioia turbolenta, quasi tormentosa, che le ribolliva dentro e la squassava. L’autunno s’inoltrava ormai nell’inverno, e l’accompagnava una presenza che fino a poco prima era stata solo un nome; ora invece, come un magnete che esercitasse su di lei il suo potere, le causava quello stato d’animo così nuovo, così diverso dalla felicità pacificante, placida (e in fondo impossibile a sopportarsi per lunghi periodi), che ci rappresentiamo quando la immaginiamo astrattamente. Era un senso festoso della vita, quasi le si dischiudessero davanti, una dopo l’altra, come fiori, le sorprese dei giorni; era come se le sue forze si fossero moltiplicate, lasciandola piena di energia e di meraviglia. Come se i dolori che aveva, le piccole contrarietà quotidiane, si fossero dissolte all’improvviso.

Sentiva sulla sua vita un potere che mai aveva sospettato prima; aveva la sensazione di essere un alberello giovane e vigoroso che scopre, per la prima volta, che il vento non lo piega davvero. Eclissata da quella dolce euforia, dal sorriso sospeso che, come un piccolo gioiello discreto, le ornava costantemente un angolo della bocca, era scomparsa la sensazione di essere ostaggio e quasi vittima dei fatti, di un destino che la strattonava; non riusciva più a rievocarla nemmeno con la sola immaginazione.

Era come assistere allo scoppiare di un’inaspettata, prematura primavera.

Esplodevano i boccioli, le gemme si gonfiavano, di un verde crudo contro i rami scuri che fino al giorno prima parevano irrimediabilmente secchi. Foglioline tenere, lisce, lustre, stormivano in un silenzio di attesa; le giornate si facevano più lunghe, arrivavano da lontananze invisibili i canti degli uccelli; la luce era diversa. Mina camminava per le strade, i passi le inciampavano sui fiori. E il cielo pareva sgombro, e il tempo sembrava ricominciare daccapo, come se non ci fosse passato, e non ci dovesse essere futuro, in quella bellezza trattenuta.

Nella pressione dei polloni prossimi a squarciarsi, nei virgulti verdi, nell’allontanarsi progressivo del crepuscolo, c’era, sì, il peso di un’attesa, dei fiori e dei frutti che sarebbero arrivati, del solstizio ogni giorno più vicino; ma quelle attese parevano ancora astratte, idee fragili di cui si scaccia il pensiero con un gesto sbadato della mano, come si farebbe con una vespa senza pensare, o prima di pensare, che l’insetto, eccitato proprio da quel gesto, potrebbe finire per pungere.

Proprio come succede in primavera – quando ogni singolo istante è una promessa protesa al futuro, un passo avanti, un foglio strappato al calendario che avvicina ancora un po’ l’estate – pareva ancora possibile, malgrado la tensione elettrica del desiderio, sprofondare nella bellezza del momento, fingere che sarebbe stato per sempre. Però la sera arrivava ogni giorno un poco più tardi, le gemme si schiudevano, l’ombra delle foglie si addensava più scura sulle strade.

«Ma quindi» le chiedeva la Filosofia, non senza stupore, «quindi, stavi così e però non avevi nessuna certezza che sareste rimasti insieme?»

«Non ci pensavo mai» rispose Mina, e non mentiva. «Per settimane, non ci ho pensato» disse, e non era una bugia: perché, strano a dirsi, in quell’insperata primavera (forse proprio per questo così simile alla primavera), il futuro sembrava impensabile e tutto rimaneva sospeso.

I fiori che uno scroscio di pioggia schiaffa a terra e lascia marcire come fradici merletti sui marciapiedi d’aprile erano, sul ramo, perfettamente identici a quelli che a giugno saranno ciliegie. Allo stesso modo, la bellezza di quell’inizio risplendeva della possibilità di essere semplicemente dissipata, e della certezza che il domani fosse ancora imprevedibile. Anzi, era proprio di quella resistenza a occuparsi del domani che, come gemme pronte a esplodere, gli istanti che i due amanti passavano insieme si gonfiavano e si riempivano fino a torturarli, fino allo stremo – allo stremo di tutte le energie, della tenerezza, del tempo e delle parole.

Non si pensa davvero al domani, quando si trascorrono insieme lunghi pomeriggi da cui si riemerge tramortiti e stupefatti, torpidi ed esaltati per l’incanto tessuto da impercettibili, precisissime sensazioni – di comprensione, di vicinanza, di paure antiche che si sgretolano davanti alla certezza che c’è chi le capisce, le abbraccia, le vede e le accetta. Quando, all’inizio di un amore, ogni pomeriggio passato insieme si spalanca così al possibile, al mondo, al tempo tutto intero, non esiste nessun domani, non si pensa a risvegli imminenti, non ci si ripete quanto sia necessario programmare, progettare, aggiustare. Sembra tutto meschino, sembra sciocco ragionare della grandine che arriverà con l’estate, quando ancora la sera cala quasi presto e il tramonto va goduto, centellinato, perché sembrava interminabile l’inverno che ha preceduto il ritorno di quelle giornate miti con le loro imprecise promesse.

Non esisteva neanche in lontananza, nel loro presente, il profilo del futuro. Era come una di quelle giornate in cui l’aria di una città è avvolta da una foschia luminosa, di prima mattina.

Il fatto di aver visto molti mattini, anche magari senza farci troppo caso, ci ha insegnato che quella foschia si potrebbe benissimo trasformare in una cappa plumbea di umidità, nell’aria pesante di un mezzogiorno afoso; oppure, può darsi che si dissolva all’improvviso, che si sollevi quando il sole sarà alto nel cielo, e allora ci lascerà vedere le montagne, limpide e immobili, lontane e pure dietro i tetti, seghettate di creste innevate oltre l’asfalto del viale, i platani, i balconi. Le montagne ci sono in ogni caso: esistono, immobili da millenni, dentro il manto dell’afa che impedisce di vederle e forse anche solo di immaginarle. Ma, nella foschia, è impossibile sapere se le vedremo o no; sono lì, e sono invisibili.

Quelle montagne sono il futuro: Mina e il suo amante se ne stanno a parlare, si guardano negli occhi e poi si telefonano, si scrivono e si chiedono come poteva essere tanto diversa la loro vita fino al giorno prima, e da dove venga quell’aumentata percezione del presente che ieri nemmeno immaginavano. Nella prima mattina del loro amore, o passioncella – chissà! –, ancora non si vedono montagne e nessuno sa se quei due siano destinati a non vederle mai, o se invece il cielo si solleverà come un canovaccio appoggiato su una coppa, e al di là dei tetti e delle cime dei platani, appariranno in lontananza.

E difatti le montagne comparvero.

Ilaria Gaspari, Ragioni e sentimenti

L’AUTRICE E IL SUO NUOVO LIBRO – Ilaria Gaspari, collaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ora è la volta di un libro unico nel suo genere, Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno), in cui Gaspari mette in scena una storia d’amore. Ma non solo. Vuole anche, con l’aiuto di filosofi e romanzieri (da Montaigne a Flaubert, da Freud a Simone Weil), tentare di sciogliere i grandi nodi che fanno sembrare complicata la vita amorosa.
Mina, la co-protagonista, sta vivendo una relazione sentimentale travagliata con un uomo già fidanzato ed è assalita da dubbi e incertezze sul da farsi. Ne parla con un’amica molto speciale, insieme alla quale è partita per una vacanza ai Caraibi. Questa amica è Filosofia, incarnazione un po’ nevrotica del sapere di tutti i tempi, sempre pronta a offrire risposte piene di saggezza ai dilemmi della povera Mina.
Alle loro conversazioni a volte partecipa, con fare petulante, anche Self Help, il ragazzotto che vorrebbe cacciare via la tristezza a suon di formule semplici e ottimistiche. Ma l’amore si nutre di insicurezza e solleva continui interrogativi: ci innamoriamo dell’amore? è giusto mostrare solo i propri lati migliori? al cuore si comanda? come possiamo mantenere le giuste distanze? la fedeltà è davvero così importante?
Queste cinque domande – ciascuna delle quali ne racchiude almeno altre cento – guidano Mina e Filosofia nel loro viaggio. Stazione dopo stazione, divagazione dopo divagazione, in questo “romanzo filosofico” in cui non manca l’umorismo, assistiamo alla formazione sentimentale di una donna di oggi, alle prese con l’eterno problema di come vivere il rapporto con la persona amata.

 

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