Nel suo nuovo libro, “Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia”, Ilaria Gaspari mette in scena una storia d’amore. Ma non solo. Vuole anche, con l’aiuto di filosofi e romanzieri (da Montaigne a Flaubert, da Freud a Simone Weil), tentare di sciogliere i grandi nodi che fanno sembrare complicata la vita amorosa… – Su ilLibraio.it un capitolo in anteprima

(…) Sedevano sotto una palma, Mina e la Filosofia in persona, poco prima del tramonto. Il cielo, mi direte voi, rosseggiava, incendiato dagli ultimi bagliori del sole.

E invece no.

Cominciava a piovere.

In tutta fretta rientrarono nella loro piccola casa di legno, che il dépliant pubblicitario chiamava bungalow; e di nuovo furono costrette a cambiare discorso. La Filosofia lamentava a gran voce il maltempo stagionale che la brochure, con i suoi blu e le sue palme, aveva accuratamente taciuto; Mina in cuor suo deplorava l’impazienza dell’amica, pur non potendo negare che la vacanza non somigliava affatto alle fotografie che l’avevano annunciata. Ma sapeva che raramente i dépliant dicono il vero: si era lasciata deludere abbastanza spesso da essere ormai consapevole dell’ingannevole incanto delle immagini promozionali.

La Filosofia, che negli ultimi tempi aveva preso l’abitudine di chiedere a tutti, con graziosa modestia, di chiamarla semplicemente Sofia, era una vecchia conoscenza di Mina – per questo erano partite insieme. Come allegoria, va detto, era quello che era: da molti anni girava il mondo senza troppe pretese, invitata di tanto in tanto in qualche università, un convegno qui, una conferenza là. Si attardava ai buffet a spiluccare tartine mentre orecchiava brandelli di conversazioni poliglotte. Educatamente rispondeva sempre a tutti che gli argomenti dei loro studi sembravano davvero interessanti, annuiva vigorosamente, stringeva mani e sorrideva. Ma da tempo sentiva di aver davvero bisogno di una vacanza. Anche il pensiero debole stanca. E ora, finalmente, lei e Mina erano partite! La Filosofia, in incognito dietro grandi occhiali scuri, sotto un enorme cappello di paglia – un «sombrero da città», come lo definì lei, senza fare una piega, mentre lo steward stupefatto pesava i trentasei chili di bagaglio e si scusava di dover applicare la sovrattassa per carico in eccesso –, si era presentata in aeroporto con pinne, maschera e boccaglio. Per la verità, infatti, nessuna delle due si era preoccupata delle previsioni meteorologiche e così erano partite senza sapere che sulla piccola isola caraibica, proprio mentre il loro aereo sorvolava l’Atlantico, si addensavano nuvole che i venti avrebbero annodato in tempeste.

Quando si erano incontrate e abbracciate al controllo passaporti, la Filosofia aveva avuto la sensazione che l’anulare sinistro di Mina fosse sormontato da una pietra lucente; una pietra di dimensioni ragguardevoli, oltretutto. Si era forse fidanzata ufficialmente, senza che la sua vecchia amica ne sapesse nulla? In cuor suo, Sofia se ne rallegrò, anche per una motivazione tanto egoistica da risultare quasi inconfessabile.

Finalmente si profilava la possibilità che qualcuno le raccontasse, di nuovo, una storia d’amore. Sapeste da quanto tempo, fra un convegno e un dibattito di bioetica, la poverina aspettava che le si presentasse l’occasione per mettersi comoda e godersi una bella avventura romantica, fresca fresca, di prima mano! Le pareva che non le capitasse da secoli!

Perché ormai, dai discorsi sull’amore le sembrava di essere proprio un po’ esclusa. La cosa la faceva sentire terribilmente vecchia, nonostante la sua natura allegorica le conferisse un aspetto da eterna ragazza, a cui teneva molto. Certo, in questo l’aiutava il suo finissimo fiuto per la moda, che le imponeva di cambiare radicalmente look al volgere di ogni decennio. Il susseguirsi di questi rinnovamenti periodici, protratto per diversi secoli, le aveva procurato un guardaroba sterminato, davvero da sogno, di uno chic da non dirsi: dalle impalpabili, eteree tuniche di quando era appena stata inventata (all’epoca abitava in Grecia, e di amore gliene parlavano, eccome! – soprattutto quel diavolaccio di Socrate), ai dolcevita neri che aveva copiato a Juliette Gréco, e che abbinava con pantaloni a sigaretta e occhialetti tondi. C’è da dire che negli ultimi quindici-vent’anni, con la scusa del revival vintage e della crisi, riciclava a ciclo continuo l’intera sezione “Novecento” della sua ricchissima collezione… ma questa è un’altra storia. Ora, per tornare a quel che vi dicevo, le capitavano di tanto in tanto certi partecipatissimi simposi di filosofi analitici sulle emozioni, o anche seminari di storici della filosofia sullo studio delle passioni in questo o quel secolo. Ma era sempre tutto molto teorico e professionale… e il principio di piacere, che fine aveva fatto? Se non avesse avuto l’abitudine di non pensare mai male di nessuno della cui colpevolezza non avesse prove certe (era molto scettica, come atteggiamento generale), avrebbe anche potuto immaginarsi che lo stessero facendo apposta, a tenerla fuori dalle storie più appassionanti.

L’amore, infatti, era considerato ormai da un pezzo materia per la Psicologia, che però, essendo stata molto impegnata nell’ultimo secolo e mezzo, aveva avuto la pessima idea di prendersi un assistente a contratto, Self Help: un ragazzotto ambizioso e sempre abbronzatissimo, con scarpe lustrate a specchio e il nodo alla cravatta troppo largo. Si faceva chiamare così per darsi un tono, diceva lui, dinamico. Si mormorava che in passato avesse fatto l’istruttore di arti marziali, per cui era meglio non contraddirlo, e anche l’animatore in un villaggio turistico, il che spiegava come, dopotutto, fosse capace di mettere di buonumore, almeno per un po’, chi si sentiva giù. Il problema era che non concepiva altri stati d’animo al di fuori di un’oscillazione continua fra entusiasmo e immotivato ottimismo. Sosteneva che la cosa più importante fosse crederci e quando la Filosofia, per stuzzicarlo, gli chiedeva:

«Ma credere in cosa?», lui faceva il vago e le diceva che doveva solo «essere se stessa». Come se lei non avesse passato i suoi secoli migliori a cercare di far capire agli uomini che essere se stessi o è ovvio o è impossibile! Ma Sofia era vissuta ormai abbastanza a lungo da sapere che era molto meglio evitare di imbarcarsi in infiniti soliloqui sul complesso problema dell’identità.

Si limitava a sorridere, e a Self Help questo faceva piacere. Lui si vantava a ogni piè sospinto del suo talento nel far sorridere tutti quelli che gli stavano a tiro. «Niente musi lunghi nel raggio di almeno centocinquanta metri da me!» diceva, distribuendo affettuosi scappellotti a chiunque non si mostrasse pronto a esibire con entusiasmo la dentatura. Sta di fatto però che, anche se lui non se ne accorgeva, quello della Filosofia era un sorriso un po’ forzato. Non lo sapeva quasi nessuno, ma lei aveva un problema. Un problema di dipendenza affettiva vicaria.

Tutto era cominciato con una telenovela venezuelana, verso la fine degli anni Ottanta. La Filosofia era stata invitata a un convegno sui nuovi media. McLuhan e Derrida erano in assoluto le parole che si udivano pronunciare con maggior frequenza fra i convegnisti, spesso accompagnate da brevi ma significativi gesti di intesa. Il buffet era un trionfo di insalate russe, pennette alla vodka, cocktail di scampi, ma purtroppo la Filosofia non aveva molta fame. Si ritrovò così, mentre al piano di sotto tutti bevevano rosé e fumavano e ridevano alle freddure filosofiche tipiche dei rinfreschi da convegno, sola nella sua stanza d’albergo a fare zapping alla tv.

[…]

Vuoi per debolezza, vuoi perché era in fondo una nevrotica ossessiva, vuoi perché ogni tanto bisogna pur concedersi un vizietto segreto, in breve tempo la Filosofia divenne a tal punto dipendente dalle telenovelas da passare interi pomeriggi, e poi intere serate, a guardarne più che poteva. Le emittenti locali ne trasmettevano a ciclo continuo, con sua grande soddisfazione.

E poi, c’erano le soap opera: anche di quelle, ne scopriva di nuove ogni giorno.

Mangiava sul divano, davanti alla televisione, qualche volta ci si addormentava persino – del resto, viveva sola, con la sua civetta domestica che una notte, sorprendendola sul sofà alle tre, in un tappeto di briciole, la fece vergognare di se stessa. Decise che non poteva vivere così: fece appello alla sua rinomata forza di volontà. Si tenne lontana, a prezzo di qualche piccola crisi d’astinenza, da tutto l’universo delle telenovelas.

Ma l’intossicazione ormai aveva attecchito nella sua mente e nelle sue abitudini. E la televisione commerciale dei primi anni Novanta era per lei quello che una gigantesca pasticceria è per il più ingordo dei golosi. Ci si era messa pure Hollywood, a tentarla con sirene meno artigianali di quell’esercito di Dolores, Milagros e Rosalinde. L’attirava un filone ben preciso: storie d’amore che basavano il loro fascino su un uso irresistibile, magnetico, dei meccanismi di identificazione. La Filosofia non si perdeva una, dico una, commedia romantica al cinema. Meg Ryan era diventata il suo faro, anche se non l’avrebbe mai ammesso durante i buffet dei convegni, e nemmeno quando l’invitavano a fare la prolusione per inaugurare qualche anno accademico. Andò dal parrucchiere con una foto della sua zazzera bionda, le fecero una formidabile permanente; riccia ed estasiata, si infilò nel primo cinema che le capitò a tiro, a vedere per la quindicesima volta Insonnia d’amore. Quando il genere che i giornali chiamavano ironicamente chick lit si affacciò finalmente in libreria, iniziò a leggere avidamente quelle storie in cui si poteva calare in un batter d’occhio, senza sforzo, senza dover nemmeno rinunciare alla sua rinomata ironia; aveva quasi la sensazione di viverci davvero, in quegli universi paralleli dove non doveva occuparsi di società liquida o dei problemi connessi con la fine della storia che, secondo qualcuno, Hegel aveva profetizzato e ora stava arrivando in pompa magna.

Il diario di Bridget Jones, come anche Sex and the City, che seguì, rispettivamente, nella transizione dal romanzo al cinema e alla tv, erano proprio dei libri carini. Li poteva anche sfoggiare in pubblico: si trattava solo di fare un piccolo sorriso, quando qualcuno le domandava cosa stesse leggendo. «Sai, ci vuole un po’ di leggerezza, ogni tanto» doveva dire in quei casi, e faceva pure una bellissima figura. Ma esaurite quelle letture così ironiche da risultare sempre più che presentabili, iniziò ad addentrarsi in un sottobosco di copertine color azzurro Tiffany, che pullulavano di tacchi a spillo, diamanti e anelli assortiti, rossetti e uomini sbagliati. Quando si sedeva a leggere ai tavolini dei bar (proprio come ci si aspettava che lei facesse), aveva un certo ritegno a mostrare quelle copertine e quei titoli orgogliosamente frivoli. Dopotutto, era una vecchia ragazza timida: non avrebbe mai avuto l’ardire di rivendicarla come un’abitudine anticonformista che, essendo lei la Filosofia in persona, si sarebbe comunque potuta permettere. Ma il suo Super-Io era troppo sviluppato per consentirglielo: finiva per ingegnarsi a nascondere i libri, spesso belli voluminosi, dietro qualche tomo di uno studioso heideggeriano che ricostruiva etimologie. «Non è mica un comportamento degno di lei» mi direte voi, ma che volete che vi risponda; è umana anche la Filosofia, che vi piaccia o no.

Il problema, comunque, non era questa sua piccola usanza imbarazzante di infilare di soppiatto Un diamante da Tiffany nella sovraccoperta dell’Introduzione alla lettura di Hegel di Kojève. Il problema dell’accumulo di queste esperienze surrogate era l’effetto che l’identificazione ossessiva sortiva sulla sua psiche. Una vera intossicazione – un’intossicazione amorosa.

(continua in libreria…)

Ilaria Gaspari, Ragioni e sentimenti

L’AUTRICE E IL SUO NUOVO LIBRO – Ilaria Gaspari, collaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ora è la volta di un libro unico nel suo genere, Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno), in cui Gaspari mette in scena una storia d’amore. Ma non solo. Vuole anche, con l’aiuto di filosofi e romanzieri (da Montaigne a Flaubert, da Freud a Simone Weil), tentare di sciogliere i grandi nodi che fanno sembrare complicata la vita amorosa.
Mina, la co-protagonista, sta vivendo una relazione sentimentale travagliata con un uomo già fidanzato ed è assalita da dubbi e incertezze sul da farsi. Ne parla con un’amica molto speciale, insieme alla quale è partita per una vacanza ai Caraibi. Questa amica è Filosofia, incarnazione un po’ nevrotica del sapere di tutti i tempi, sempre pronta a offrire risposte piene di saggezza ai dilemmi della povera Mina.
Alle loro conversazioni a volte partecipa, con fare petulante, anche Self Help, il ragazzotto che vorrebbe cacciare via la tristezza a suon di formule semplici e ottimistiche. Ma l’amore si nutre di insicurezza e solleva continui interrogativi: ci innamoriamo dell’amore? è giusto mostrare solo i propri lati migliori? al cuore si comanda? come possiamo mantenere le giuste distanze? la fedeltà è davvero così importante?
Queste cinque domande – ciascuna delle quali ne racchiude almeno altre cento – guidano Mina e Filosofia nel loro viaggio. Stazione dopo stazione, divagazione dopo divagazione, in questo “romanzo filosofico” in cui non manca l’umorismo, assistiamo alla formazione sentimentale di una donna di oggi, alle prese con l’eterno problema di come vivere il rapporto con la persona amata.

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