Una riflessione che parte dal presepe che Francesco d’Assisi concepì la notte di Natale del 1223 (in cui non c’era alcuna immagine scolpita del Bambino, solo una greppia vuota) e arriva al saggio sul vuoto di Byung-Chul Han, passando per la filosofia taoista e il buddhismo zen: “L’assenza non è privazione, ma apertura infinita all’Essere…”
Il vuoto della greppia
La notte di Natale del 1223, Francesco d’Assisi concepì un presepe straordinario a Greccio, non come semplice rappresentazione scenica, ma come atto di contemplazione. Non c’era alcuna immagine scolpita del Bambino, solo una greppia vuota, riempita di fieno, il bue e l’asinello. Quell’assenza non era un errore, ma il cuore del mistero: un vuoto che invitava alla meditazione silenziosa.
Tommaso da Celano racconta che Francesco volle vedere “con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie”. La mangiatoia vuota diventava così un invito a contemplare ciò che manca, ciò che si attende.
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Il vuoto della greppia non era mancanza, ma possibilità, un simbolo di attesa e accoglienza. Era un’assenza che chiedeva di essere abitata dalla fede. La povertà radicale di quella scena si trasformava in un messaggio universale: il divino non irrompe nel clamore, ma nello spazio lasciato libero dall’avidità e dall’egoismo. Francesco contemplava questa mancanza con gli occhi del cuore, come chi cerca il silenzio per trovare l’Assoluto.
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Il vuoto, dunque, è già una presenza: nella meditazione cristiana, non è il nulla, ma un’energia spirituale che anima l’interiorità. La tradizione monastica, con la sua ricerca del deserto interiore, si radica proprio in questa intuizione. Come il presepe, anche la vita spirituale è un’attesa continua, uno spazio pronto a essere riempito dalla luce divina.
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Non-abitare
La riflessione sul vuoto di Byung-Chul Han si spinge oltre la teologia occidentale, attingendo alla filosofia orientale. Nel suo libro Del Vuoto (nottetempo, traduzione di Simone Aglan-Buttazzi), descrive l'”ab-essenza” come una condizione in cui l’essere non si afferma né si impone, ma esiste solo in quanto è aperto e in divenire. “L’essenza è stabilità, resistenza e durata”, afferma Han, “mentre il vuoto è processo, flusso, apertura infinita”.
Nella filosofia taoista, il vuoto è simbolo di potenzialità creativa. Laozi scrive: “Il buon viandante non lascia tracce”, indicando che l’essere autentico non si fissa in forme stabili, ma scorre come l’acqua che si adatta senza perdere la sua natura. Il vuoto non è mai statico né passivo: è uno stato di possibilità infinite, in cui nulla è posseduto e tutto è possibile.
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Applicando questa visione al presepe di Francesco, la greppia vuota diventa simbolo di un’apertura al trascendente. L’assenza del Bambino non è negazione, ma attesa fertile, un vuoto carico di senso. Così, la mangiatoia assume lo stesso significato che Han attribuisce al vuoto: uno spazio che accoglie senza trattenere, che si lascia attraversare dal mistero senza pretendere di possederlo.
Nel buddhismo zen, il vuoto è condizione necessaria per l’illuminazione: solo chi si svuota dell’ego può percepire la realtà ultima. Han cita Zhuangzi, secondo cui il saggio “vaga nel non-essere” e “non lascia tracce”. Non si aggrappa a nulla, non cerca stabilità. Questo “non-abitare” è una lezione profonda anche per l’Occidente: imparare a vivere senza accumulare, senza dominare.
Alla luce di questa filosofia, il presepe francescano appare come una rappresentazione profondamente meditativa: una realtà spoglia, priva di orpelli, dove la vera ricchezza è il vuoto stesso. La meditazione sul presepe diventa allora esercizio spirituale, invito a svuotarsi delle illusioni per essere colmati dal mistero di Dio. In questo vuoto, Francesco d’Assisi e Byung-Chul Han si incontrano: l’assenza non è privazione, ma apertura infinita all’Essere.
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Fotografia header: Byung-Chul Han (foto di Laurent Viteur/Getty Images 02-10-2024)