“Lavoro con lentezza, di rado scrivo per incarico di qualcuno. Mi scelgo un paese, ci vado e imparo una nuova lingua e un nuovo codice di vita. Ho vissuto in Romania per due anni, in Albania per sei. È una specie di scrittura dal vero…”. Margo Rejmer, scrittrice e giornalista polacca, nei suoi libri racconta l’Europa sopravvissuta al comunismo. In “Bucarest, Polvere e sangue” mostra una capitale rumena mai politicamente neutra. Intervistata da ilLibraio.it parla del suo metodo di lavoro, del reportage che ha dedicato alle contraddizioni dell’Albania contemporanea e dei suoi prossimi progetti. E spiega: “Perché occuparmi dei Balcani? Perché volevo avere una vita interessante, in quei paesi mi sento me stessa…”

“È difficile dire se Bucarest sia una piccola città o un grande villaggio”: la capitale rumena ritratta dalla scrittrice polacca Margo Rejmer in Bucarest, Polvere e sangue (Keller editore, traduzione di Marco Vanchetti) non è mai politicamente neutra. Gli effetti del regime di Nicolae Ceaușescu, finito nel 1989, sono evidenti sui monumenti e nelle parole dei testimoni, i protagonisti di questo libro, e in generale di tutti i libri di Rejmer, presto in arrivo in Italia sulla scia del successo di questa recente pubblicazione.

Dopo la Romania, Rejmer ha vissuto e raccontato l’Albania contemporanea, anch’essa orfana di un regime dittatoriale, quello di Enver Hoxha. ilLibraio.it ha raggiunto la giornalista per parlare del suo metodo, dei suoi reportage e dei progetti futuri (foto credits di Katarzyna Lasoń).

Bucarest. Polvere e sangue Margo Rejmer

I reportage sono come finestre su un mondo dimenticato, soprattutto dai paesi dell’Europa Occidentale. Qual è il suo metodo al lavoro di scrittura?
“Ricordo che una volta stavo parlando con l’attore Vlad Ivanov e a un certo punto lui ha detto: ‘Tu non ti comporti affatto come una giornalista! A te interessa davvero quello che dico’. In quel momento aveva colto qualcosa di importante: quello che faccio non è tanto la mia professione, quanto la mia vita, il percorso che mi sono scelta, un processo. Non collaboro stabilmente con nessuna testata giornalistica, non ho mai fatto parte di nessuna redazione. Lavoro con lentezza, di rado scrivo per incarico di qualcuno. Mi scelgo un paese, ci vado e imparo una nuova lingua e un nuovo codice di vita. Ho vissuto in Romania per due anni, in Albania per sei. È una specie di scrittura dal vero: la professione diventa un buon pretesto per avere una vita interessante, conoscere nuove persone e collezionare storie”.

Uno dei personaggi del capitolo sul Palazzo del Parlamento esprime la sua disillusione verso i giornalisti occidentali. In che modo la sua nazionalità ha influenzato questo suo lavoro?
“Sia i rumeni sia gli albanesi immaginano spesso il giornalista occidentale come qualcuno che cerca un argomento sensazionale, buono per essere venduto bene, distorcendo la realtà. In Albania ho spesso sentito dire: ‘Basta che non scriva anche tu a proposito dei bunker come tutti gli altri, racconta piuttosto perché è impossibile vivere in questo paese’. Ancor più della Romania, l’Albania ha bisogno di giornalisti investigativi indipendenti, che siano in grado di svelare i legami di politici e oligarchi con la criminalità organizzata e con i cartelli della droga. Inoltre, sia i rumeni sia gli albanesi sono popoli di grandi migrazioni, e in questo senso è stato per loro facile accettarmi in quanto polacca”.

Perché?
“Dopo l’adesione all’Unione Europea anche la Polonia ha subito una grande ondata migratoria. Si può dire che ciascun rumeno o ciascun albanese conosca qualche polacco che sta cercando di far soldi in qualche parte del mondo. Grazie all’esperienza condivisa del comunismo, e poi della trasformazione neoliberista, mi è stato più facile comprendere quella grande tensione che esiste tra il bisogno di libertà e la necessità di un senso di sicurezza che caratterizza le nostre società, così come le aspirazioni, i desideri e le delusioni che abbiamo vissuto dopo il cambio di sistema”.

Trova che questo aspetto di alterità influisca ancora sul suo lavoro?
“Sono polacca, ma il mio compagno di vita è italiano, in casa parliamo inglese. Ora la nostra casa è Varsavia, ma in men che non si dica può diventarlo qualunque altra città europea. Mi sento polacca soprattutto perché penso in polacco, ma la mia vita si svolge in tante realtà diverse e quella polacca è solo una di queste”.

Come è cambiata Bucarest dal 2014?
“Bucarest diventa ogni anno più bella, più luminosa, più pulita. È una città con una straordinaria architettura e ci sono sempre più progetti tesi a restituirle il suo antico splendore. Quando guardo all’ultimo decennio della storia rumena vedo fasi di progresso e di regressione, di euforia e di scoraggiamento. Dopo le proteste di massa che hanno portato a un arroccamento politico, la società ha perso il suo antico spirito combattivo, le persone non vogliono più scendere in strada come una volta”.

Ci sono altri aspetti che tornerebbe a raccontare?
“Se adesso dovessi scrivere un altro libro sulla Romania dedicherei di sicuro molto spazio alla storia del movimento Rosia Montana e alle rivolte della società civile che hanno portato al cambiamento politico e all’intensificarsi della lotta alla corruzione. Bucarest è in gran parte un libro su me stessa, il taccuino d’appunti di stile di una scrittrice che produce reportage alla sua maniera, giocando con la forma. Fango più dolce del miele, il mio libro successivo dedicato all’Albania comunista, è una narrazione completamente diversa, scritta col pensiero rivolto agli albanesi e utilizzando strumenti giornalistici e letterari completamente differenti”.

Esatto. Lei ha scritto un altro libro (inedito in Italia) sull’Albania di Hoxha. Quali aspetti, di cui si è occupata, sono quelli più sottovalutati?
“In Polonia la Romania era vista in modo stereotipato, come il paese abitato dai rom e non come il paese che aveva prodotto Cioran, Eliade e Ionesco. Fino a poco tempo fa l’Albania faceva venire in mente l’idea del gangster in Mercedes e del pastore a dorso d’asino. Questo sta cambiando, non foss’altro perché i polacchi viaggiano sempre più spesso nei Balcani, scoprono paesi che fino a non molto tempo fa sembravano loro poveri e esotici, invidiano agli albanesi clima e cibo”. 

Perché i Balcani?
“Perché volevo avere una vita interessante. Stavo lavorando alla mia tesi di dottorato all’Università di Varsavia, ma la struttura gerarchica e la routine del sistema mi deprimevano. Ricordavo le storie che durante l’infanzia mi raccontava mio padre, che aveva girato il mondo in lungo e in largo dietro a loschi affari di vario tipo, ma non mi ha mai portata con sé. Il suo appartamento era pieno di oggetti e di fotografie provenienti dall’India, dalla Cina e da Singapore, mentre io sono cresciuta con mia madre in una piccola cittadina, e avevo la sensazione di essere intrappolata lì, di essere esclusa da una vita diversa e migliore. Poi ho perso i contatti con mio padre, ma alla fine ho sentito di essere in grado di vivere come mi pare, a modo mio. Quando sono andata ad abitare in Romania sapevo già di voler creare una connessione tra la mia vita e i Balcani, sapevo che il senso balcanico di libertà, lentezza e assenza di fretta è qualcosa che mi appartiene. Nei Balcani mi sento più me stessa. Il trasferimento in Albania è stato come rivivere la mia infanzia: come mio padre gli uomini guidavano vecchie Mercedes, indossavano giacche di pelle, tenevano armi in casa, facevano strani traffici. Questa volta, però, ero adulta, potevo decidere la mia vita e avevo gli strumenti per controllare la realtà, sapevo cioè come descriverla.

Le democrazie di cui lei parla stanno rapidamente regredendo a delle forme di governo più restrittive. Cosa ne pensa?
“È vero che Polonia e Ungheria stanno attraversando un periodo di involuzione democratica, non si sa quale sarà il futuro della Repubblica Ceca e della Slovacchia. I Balcani, d’altra parte, stanno osservando con grande attenzione la situazione politica italiana e stanno ipotizzando come il governo Meloni influenzerà la vita delle minoranze insediate nel vostro paese. Il mito degli Stati Uniti democratici, che proteggono la libertà dei loro cittadini, sta vacillando davanti ai nostri occhi. Ma come scrittrice non sono interessata ai processi politici in sé, quanto piuttosto al loro impatto sulla vita delle persone”. 

Parlerà di questo aspetto nei suoi prossimi libri?
“Nel mio prossimo libro sull’Albania cercherò di rispondere alla domanda sul perché gli albanesi che vivono in un paese teoricamente democratico non si sentano liberi, perché non si sentano padroni della propria vita. Perché il cambiamento del sistema politico ha arrecato loro tante delusioni? Cos’è che ci rende davvero felici?
In questo momento, poi, sto portando a termine anche una raccolta di racconti ambientati in Albania, in Kosovo e in Polonia e sono felice di esser potuta tornare finalmente alla narrativa, a lavorare sulla lingua usando come strumento principale l’immaginazione”.

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Fotografia header: Margo Rejmer © Katarzyna Lasoń.

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