“Nella nostra vita c’è uno stato che tutti abbiamo vissuto, la giovinezza, in cui pensiamo e agiamo in modo completamente diverso da quello che è il resto della vita”. Leonardo Caffo, filosofo e scrittore, con il suo ultimo testo, “Essere giovani”, si interroga sullo stato della giovinezza, che non per forza coincide con quella anagrafica, ma che nell’età trova il suo unico spazio consentito: “C’è uno stato biologico in cui ci è consentito essere giovani, in cui esserlo non è ridicolo. Un’età in cui ci è consentito sbagliare, essere completamente orientati al futuro, essere fuori dalle regole o dal dominio della moralità classica”. Una riflessione che prosegue alcune idee sviluppate in precedenza, come il postumano contemporaneo, e che ne danno una nuova comprensione, più ancorata all’esperienza umana: “Se fossimo tutti quanti nello stato della gioventù, quanto sarebbe diversa la nostra società, e che vita umana seguirebbe?” – L’intervista

Leonardo Caffo è un filosofo e scrittore, ora in residenza presso il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, e professore di Estetica dei media e della moda alla NABA di Milano. Laureato in Logica e Filosofia e con un dottorato in Filosofia Estetica, le sue idee trovano spazio sia all’interno di libri sia di numerosi progetti artistici e di ricerca che superano i confini interdisciplinari

Il suo ultimo lavoro, Essere giovani (Ponte alle Grazie) è un racconto filosofico che prende spunto da aneddoti autobiografici per interrogarsi su cosa sia esattamente lo stato della giovinezza. Questa viene analizzata filosoficamente, anche a partire da spunti narrativi e letterari, non in quanto periodo della vita dell’umano, ma come uno stato, che è sia modo di essere che di vivere, e nel quale è possibile sentirsi davvero parte del mondo che si esperisce al posto che riflettere su di esso, di fatto separandosene.

Sono molte le pubblicazioni precedenti, tra cui troviamo Il maiale non fa la rivoluzione. Il nuovo manifesto per un antispecismo debole (Sonda, 2013), Fragile umanità (Einaudi, 2017), Vegan. Un manifesto filosofico (Einaudi, 2018), Il cane e il filosofo. Lezioni di vita dal mondo animale (Mondadori, 2020), Quattro capanne o della semplicità (nottetempo, 2020).

ilLibraio.it ha incontrato l’autore a Walden, caffé letterario e bistrot milanese di ispirazione filosofica di cui Caffo è tra i fondatori, per parlare dei temi della sua ultima pubblicazione.

copertina del libro essere giovani di leonardo caffo

Qual è stata l’ispirazione che l’ha portata a scegliere il tema della gioventù?
“L’evento che racconto a inizio del libro: mi trovavo in una residenza per artisti e una sera siamo andati a Lignano a bere una birra. Io ero vestito elegante e lì c’erano dei ragazzini che stavano facendo il bagno. Non mi sono mai sentito così alieno: era come stare dentro una foresta con degli animali che ti guardano strano. In quel momento mi sono reso conto che ho sempre cercato al di fuori della nostra specie per capire che cosa significano la mutazione, l’antropocentrismo, il divenire e la metamorfosi, ma in realtà bastava guardarmi indietro e vedere che cosa avevo lasciato dietro di me. E poi non mi veniva in mente nulla di contemporaneo che si fosse occupato della giovinezza da un punto di vista filosofico, se non testi molto tecnici”.

Questa analisi come si collega quindi alle teorie del postumano contemporaneo e dell’antispecismo debole?
“Pensiamo ai discorsi metaforici sull’essere animali o sulla metafisica vegetale: si tratta di cose che in realtà non possiamo capire veramente perché non abbiamo le strutture mentali per farlo. È la teoria di Nagel: non puoi identificarti nell’esperienza di un pipistrello, ma solo nella tua proiezione di quella che pensi sia l’esperienza del pipistrello. Mentre nella nostra vita c’è uno stato che tutti abbiamo vissuto, la giovinezza, in cui pensiamo e agiamo in modo completamente diverso da quello che è il resto della vita. Quindi, anziché l’animalità, o la postumanità, ho provato a utilizzare la gioventù come strumento di disinnesco dello stato di vita in cui si è sviluppata la filosofia occidentale. Si tratta sempre di un tentativo di capire cosa significa mettere in discussione il modello di vita maggioritario. Il problema che mi sono posto è: se fossimo tutti quanti nello stato della gioventù, quanto sarebbe diversa la nostra società, e che vita umana seguirebbe?”.

Nel libro, citando Ettore Sottsass, riflette sul fatto che, se nel futuro la produzione venisse affidata interamente alle macchine, si potrebbe tornare a essere giovani in un mondo in cui tutto si concentra sul gioco.
“In seguito alla rivoluzione fordista le città sono diventate dei luoghi di lavoro: pensi invece a come sarebbe un’umanità che ha tutto il tempo per giocare. Le città diventerebbero immensi dispositivi per il gioco. Siamo di fronte a un parchetto in questo momento: ci sono dei bambini che si arrampicano sulle corde e che giocano a pallone, però se vedessimo degli adulti sull’altalena ci sembrerebbero un po’ strani. Essere giovani vuole anche essere una risposta, ovviamente dilettantistica, a Essere e tempo di Heidegger, che ha una concezione della temporalità e dell’essere estremamente legati alla vita adulta, specializzata, linguistica e razionale, ma anche alla temporalità percepita e quindi al morire. Se uno, invece, si posiziona nel terreno del gioco tutto diventa eterno perché a quel punto si può giocare a ‘fare finta’ e tramite lo strumento del ‘make believe’ non esisterebbero più la maggior parte dei concetti con cui la filosofia occidentale ha articolato il suo sapere”.

Ci spieghi meglio. 
“La maggior parte delle categorie metafisiche, ontologiche, logiche, epistemologiche non sono eterne ma sono connesse alla mente che le pensa. E forse non è che abbiamo arredato il mondo di categorie che sono vere soltanto per gli umani, o che sono vere solo per un tipo solo di uomini, ma abbiamo stabilito categorie valide addirittura solo per un tipo anagrafico di uomini. Perché una filosofia fatta dal punto di vista dei quattordicenni dovrebbe essere meno meritevole di una filosofia fatta da professori universitari tedeschi cinquantenni?”

Però l’essere giovani non è una questione solo anagrafica. 
“La gioventù di cui parlo non ha niente a che fare con uno stato biologico; però c’è uno stato biologico in cui ci è consentito essere giovani, in cui esserlo non è ridicolo. Un’età in cui ci è consentito sbagliare, essere completamente orientati al futuro, essere fuori dalle regole o dal dominio della moralità classica. E non è uno stato che si disattiva biologicamente: infatti oggi si parla di adolescenze estese fino ai venticinque anni, o di cinquantenni che si comportano come degli eterni giovani”.

Uno stato biologico di cui molti giovani non hanno per esempio potuto godere per via della pandemia.
“Dannato quel periodo storico che toglie ai giovani la possibilità di esserlo: è capitato ai giovani durante i conflitti mondiali, ma anche ai giovani di oggi sulla Striscia di Gaza. C’è sempre stata una buona ragione per non essere giovani e quindi c’è sempre stata una buona ragione per provare a esserlo al di là dell’età. Per riuscire a farlo, però, è veramente necessario cambiare tanti preconcetti. C’è una frase bellissima che Ungaretti dice a Pasolini in Comizi d’amore: ‘Ora sono vecchio e non rispetto più che le leggi della vecchiaia, che, purtroppo, sono le leggi della morte’. Dovremmo capire, invece, che esiste una possibilità di vivere dentro le leggi della gioventù a qualsiasi età e in qualsiasi momento”.

La filosofia che descrive passa anche dall’incarnare nella pratica di vita i propri principi filosofici. Ma quanto è possibile essere coerenti con i propri principi nella complessità del mondo contemporaneo?
“Avere una morale non significa comportarsi bene nella vita, o che non sperimenterai mai categorie dell’essere che poi scoprirai essere sbagliate. Anche tutte le categorie che non sono positive contribuiscono allo sviluppo della morale: perché la morale, come la scienza, procede per errori e per probabilità. Ai giovani è concesso sbagliare, agli adulti no: anche per questo sono una categoria interessante. Poi rispetto a cosa bisogna essere coerenti, visto che cambiamo continuamente? Io, per esempio, da ragazzino ero uno di quelli che andava a liberare gli animali. Poi, dopo tanti anni di radicalismo, ho scritto un libro, Vegan, in cui cerco di spiegare che sei vegano anche se mangi la torta con il formaggio che la nonna ha preparato apposta per te pensando che la potessi mangiare. C’è molto più veganesimo in quel gesto che nell’arroccarsi sulla propria posizione. Per i monaci buddhisti tibetani che non possono mangiare niente che ha sofferto, alla terza volta che gli vengono offerte cose incompatibili a quel principio, è il principio estetico dell’offesa a sopravvenire sugli altri. Non è pressapochismo, ma l’idea che la morale è un sistema molto più liquido di come la si potrebbe ritenere. Il punto è connettersi dando un senso alle azioni che stai facendo”.

Come intende, quindi, la pratica filosofica?
“Non si tratta di agire moralmente, in accordo con i propri principi, ma di eliminare la distinzione tra agire e pensare. Poi questo può generare anche criminali: la filosofia dell’azione di Nietzsche non è propriamente un invito a fare del bene. La filosofia occidentale ha avuto una perdita da quando ha delegato le questioni spirituali alla religione e le questioni della cura di sé alla psicologia: la filosofia che si produce dovrebbe essere una modifica pratica delle vite. Invece pensiamo che il misticismo (anche quello generato da Wittgenstein, senza scomodare i monaci buddhisti) sia una stupidaggine new age. Pensare è un’attività molto complessa, e molte cose non si spiegano con le parole ma si spiegano con la pratica e col fare. Da quando ho iniziato a prendere questa direzione mi leggono gli artisti, gli architetti, i designer, gli scrittori, ma per i filosofi sono completamente uscito da quel dominio, perché ho rifiutato un mondo in cui fare filosofia significa, per esempio, scrivere decine di pagine sulla ricezione di Kant nel dopoguerra”.

In Essere giovani non a caso non manca anche un approccio di tipo narrativo. 
“Più che una questione di stile si è trattata di una questione di metodo. Per me rompere con la forma saggio, con cui si esprime la filosofia contemporanea, è sia un modo per decostruire la forma classica entro il quale il logocentrismo antropocentrico si va a esprimere, sia un modo per cercare di far aprire gli occhi a tanti ragazzi che studiano filosofia in università, in cui ci si esprime solo per brevi saggi pieni di note a piè pagina che mimano lo stile delle scienze esatte. Per duemila anni la filosofia si è espressa con aforismi, spettacoli teatrali, romanzi, diari: questi sono il canone della filosofia che noi studiamo, escluse alcune eccezioni come i saggi aristotelici o kantiani. L’innovazione ora è considerata una distruzione della filosofia: di fatto se oggi ci fosse un Nietzsche in giro per le città noi non lo considereremmo utile al dibattito filosofico perché non scrive come in università”.

Come si immaginerebbe una scuola di filosofia?
“Molto più simile a una scuola d’arte che a un dipartimento di scienze sperimentali. Mi immagino un luogo in cui sicuramente si studia tutta la filosofia, il canone, la storia, si pratica logica, ma in cui poi c’è il teatro in cui mettere in scena i dialoghi filosofici, in cui ci sono esercizi legati al corpo, in cui c’è lo spazio di sperimentare tutte quelle cose che riteniamo new age, come la meditazione, ma che in realtà sono parte integrante della filosofia. Come si fa a capire Sant’Agostino per esempio, senza prendere in considerazione che le sue erano riflessioni sorte dopo aver passato ore inginocchiato a pregare Dio? Dentro la filosofia ci sono anche saperi performativi, saperi artistici. Me lo immagino esattamente un ritorno all’accademia, con un enorme prato, le elezioni a cielo aperto, le camminate. Puoi se vuoi formare dei filosofi della scienza va benissimo, ma gli studenti a quel punto andrebbero portati nei veri laboratori, e quei saperi frequentati per davvero”.

Libri consigliati

Abbiamo parlato di...