Nelle scuole finlandesi i bambini giocano molto più che in quelle italiane, e dedicano molto più tempo alle attività “manuali”, con ottimi risultati, stando alle classifiche di alfabetizzazione. È un “modello” esportabile anche da noi? Su ilLibraio.it il commento di Simonetta Tassinari, insegnante e scrittrice: “Nella sua città ideale, raffigurata nella ‘Repubblica’, Platone afferma che gli anziani dovranno sorvegliare i bambini mentre giocano per intravederne le qualità; perché il gioco è una delle attività più serie a cui gli esseri umani possono dedicarsi, anzi, secondo Hegel (che pure non era un burlone), è la cosa più seria, e la più vera, per un uomo”. Peccato, però, che gran parte dei genitori italiani penserebbe (a torto) a una perdita di tempo… – Il commento

Spesso si parla della scuola finlandese (in particolare di quella che da noi corrisponde all’ultimo anno della scuola dell’infanzia e di quella primaria), come di un modello i cui risultati parlano da soli: l’abilità nella lettura, che pone gli scolari di quella nazione ai primi posti in Europa; una loro particolare “serenità”; un altissimo tasso di alfabetizzazione culturale, ovvero la padronanza degli strumenti e conoscenze molteplici possedute in modo durevole.

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Sbirciare nell’orto del vicino (si fa per dire) magari non ci condurrà a cambiare per intero la nostra piantagione, ma magari a inserirvi qualcosa di nuovo, sì; e senza dimenticare che anche la nostre scuola dell’infanzia e primaria sono, quasi sempre, di ottimo livello, quali sarebbero le specificità del “modello Finlandia”?

Quel che colpisce è lo spazio concesso al gioco e all’attività manuale, anzi, come si legge, all’attività “artigianale”, che da noi esiste pressoché esclusivamente presso le Scuole Montessori. L’insegnamento stesso, soprattutto nella classe italiana parallela, l’ultimo anno dell’Infanzia (che in Finlandia si affronta a sei anni, e non a cinque), insomma durante l’anno di “prescuola”, viene impartito sotto forma ludica. Non si tengono vere e proprie lezioni frontali, tantomeno si assegnano compiti a casa, i quali, là dove compaiono, sono intesi soprattutto come un ripasso, di non oltre un quarto d’ora, di quel che si è affrontato la mattina (e qui si entrerebbe nell’attuale dibattito, scottantissimo, sull’utilità, o inutilità, dei compiti per casa…). L’unità didattica non dura un’ora, bensì quarantacinque minuti, intervallati da un quarto d’ora di pausa-gioco. L’istituto fornisce gratuitamente ogni tipo di materiale- penne, libri, tablet- e di assistenza- medici e psicologi; gli insegnanti di sesso maschile sono molto più numerosi delle maestre, e si tolgono le scarpe, come gli scolari, entrando nelle aule, arredate con banchi e sedie ma anche con ampi spazi vuoti per potersi muovere liberamente. Gli istituti scolastici sono ben distribuiti sul territorio, e quasi sempre assai vicini alle abitazioni, tant’è vero che i bambini vi si recano da soli.


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Il modello finlandese potrebbe, almeno in parte, essere esportato anche da noi?

La nostra scuola è, evidentemente, molto diversa, più “strutturata”; e l’Italia è ben diversa da una piccola (e ricca) nazione come la Finlandia, che non arriva ai sei milioni di abitanti, un decimo dell’Italia, con una densità di popolazione molto bassa. Tutto sommato la Finlandia rappresenta, rispetto a noi, un altro mondo, senza naturalmente darne alcun giudizio di valore; e, di conseguenza, anche un’altra scuola (come pensare di mandare i bambini da soli a scuola a piedi nei nostri agglomerati urbani, caotici e mostruosamente grandi, e anche nei nostri centri urbani normalmente caotici, pur senza essere mostruosamente grandi?). Il nostro territorio non assomiglia affatto a quello della penisola scandinava in generale; le risorse finanziarie e gli investimenti sono, da noi, decisamente più scarsi, senza parlare dell’altra scottante questione della sicurezza degli edifici (e degli stipendi degli insegnanti, detto tra le righe…).

Eppure, la questione del tempo-gioco resta. Perché il tempo dedicato al gioco non è mai tempo sprecato, e nelle nostre scuole non si gioca abbastanza. Nella sua città ideale, raffigurata nella “Repubblica”, Platone afferma che gli anziani dovranno sorvegliare i bambini mentre giocano per intravederne le qualità; perché il gioco è una delle attività più serie a cui gli esseri umani possono dedicarsi, anzi, secondo Hegel (che pure non era un burlone), il gioco è la cosa più seria, e la più vera, per un uomo.

Rousseau scrive che occorre trattare “il bambino da bambino”, e che fino ai dodici anni bisognerebbe soprattutto far esercitare i sensi, l’occhio e la memoria, che nel gioco sono impegnati. Huizinga addirittura sostiene che anche la scienza e la cultura nascono sempre con i caratteri di un gioco divertente.

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È probabile che i nostri insegnanti di scuola dell’infanzia e primaria applichino spesso, per conto loro- gran parte delle cose buone nascono spontaneamente, e per iniziativa individuale- questi metodi, infilandoli nei programmi e nelle occupazioni prestabilite in forma ricreativa, il cui concetto d’altronde compare nella parola “scuola”, dal greco “skolè”, libero esercizio non finalizzato ad alcunché di pratico. Tuttavia, la mia impressione è che un maggiore inserimento del gioco nel nostro ordinamento scolastico, previsto addirittura da una norma, incontrerebbe resistenze non tanto tra gli insegnanti, piuttosto tra i genitori.

I genitori sono afferrati, assai spesso, da un’ansia “da prestazione”, che li fa sentire inadeguati se ritengono di non fornire ai loro figli ogni tipo di supporto extrascolastico, dalle lezioni supplementari di inglese fino alla piscina, così come se non li vedono impegnati in qualcosa di “serio” durante le poche ore libere che i bambini hanno il pomeriggio. Penserebbero a una perdita di tempo; sono essi stessi cresciuti in una scuola simile, che, nelle sue linee generali, non è mai veramente cambiata; come reagirebbero davanti alle lunghe pause tra un’ora e l’altra, tipo la scuola finlandese? O nel sapere che, invece di imparare qualcosa di concreto, che potranno riferire a casa, i loro bambini hanno costruito un palazzo con il Lego o si sono rincorsi su di un tappeto a piedi scalzi, e magari giocato a mosca cieca con la maestra?

TASSINARI rid

L’AUTRICE * – Nel 2015 Simonetta Tassinari ha pubblicato La casa di tutte le guerre, romanzo ambientato in Romagna nell’estate 1967. E’ appena tornata in libreria con La sorella di Schopenhauer era una escort, un libro per i genitori, per i ragazzi, per chi non è genitore e non è neanche un ragazzo, per i curiosi, per chi vuole sorridere, e leggere, della scuola italiana. Un ritratto divertente della generazione smartphone-munita, che va alla radice del bisogno di fingersi più bravi di quel che si è.

L’autrice è nata a Cattolica ed è cresciuta tra la costa romagnola e Rocca San Casciano, sull’Appennino. Vive da molti anni a Campobasso, in Molise, dove insegna Storia e Filosofia in un liceo scientifico. Ha scritto sceneggiature radiofoniche, libri di saggistica storico- filosofica e romanzi storici.

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