In un mondo in cui la tecnologia crea dipendenza ed è volta a comprare e vendere la nostra attenzione, sembra impossibile trovare una via di fuga. Jenny Odell, artista, scrittrice e docente alla Stanford University, ha indagato questi temi nel suo “Come non fare niente”, un saggio per imparare a riappropriarsi del proprio tempo e riscoprire il potenziale di attività comunemente considerate improduttive, fuori dagli schemi capitalistici di efficienza – Su ilLibraio.it un capitolo

La vita è un pendolo che oscilla tra uno scrolling continuo e una lista di cose da spuntare. C’è sempre qualcosa da sbrigare, un evento a cui partecipare, un appuntamento da non perdere. Siamo tutti troppo oberati, troppo sommersi di informazioni e di stimoli, incapaci di restare senza fare niente. La noia è scomparsa di fronte alla possibilità di un intrattenimento incessante.

In un mondo in cui la tecnologia crea dipendenza ed è volta a comprare e vendere la nostra attenzione, in cui il valore di ciascuno è determinato dalla produttività 24 ore su 24, 7 giorni su 7, sembra impossibile trovare una via di fuga.

Jenny Odell, artista, scrittrice e docente alla Stanford University, ha indagato questi temi nel suo Come non fare niente (Hoepli), una guida per imparare a riappropriarsi del proprio tempo e riscoprire il potenziale di attività comunemente considerate improduttive, fuori dagli schemi capitalistici di efficienza.

Secondo l’autrice, la nostra attenzione è la risorsa più preziosa e dobbiamo attivamente scegliere come utilizzarla. Oziare quindi diventa un’azione quasi politica che riporta l’uomo al centro dell’ambiente. Questo è resistere all’economia dell’attenzione: è il rifiuto di consentire agli operatori di marketing su internet di decidere come consumare il proprio tempo. È il rifiuto di permettere che l’atto di consumo “consumi” la propria vita.

Provocatorio e persuasivo, lungi dall’essere un saggio anti-tecnologia, Come non fare niente è un libro per imparare a cambiare il modo di vedere il posto che si ha nel mondo.

come non fare niente

Per gentile concessione della casa editrice, su ilLibraio.it un estratto:

Impossibile ritirarsi

Molte persone si ritirano dalla società, come esperimento…
Ho pensato di farlo anch’io e di vedere quanto sarebbe stato illuminante.
Invece ho scoperto che non lo è affatto.
Penso che quel che si dovrebbe fare è stare nel bel mezzo della vita.
– Agnes Martin

Se per non fare niente sono necessari spazio e tempo lontani dall’implacabile panorama della produttività, potremmo essere tentati di arrivare a una conclusione: voltare le spalle al mondo, temporaneamente o per sempre. Sarebbe una reazione poco lungimirante. Troppo spesso, i ritiri digital detox e simili sono etichettati come “stratagemmi” per aumentare la produttività una volta tornati al lavoro. E l’impulso di dire addio a tutto, in modo permanente, non basta per trascurare la nostra responsabilità verso il mondo in cui viviamo; non è fattibile, e per determinati buoni motivi.

L’estate scorsa organizzai accidentalmente il mio personale ritiro digital detox. Ero in viaggio da sola in Sierra Nevada per lavorare a un progetto sul Mokelumne River e, nella baita che avevo prenotato, il cellulare non prendeva e non c’era il WiFi. Visto che non me l’aspettavo, ero anche impreparata: non avevo detto a nessuno che sarei stata offline per qualche giorno, non avevo risposto a email importanti né scaricato musica.

Sola nella baita, mi ci vollero una ventina di minuti per calmarmi perché, sentendomi improvvisamente disconnessa, avevo iniziato a dare i numeri. Ma dopo quei brevi attimi di panico, fui sorpresa di scoprire quanto velocemente la cosa smise di preoccuparmi. Anzi, mi affascinava l’inerzia del mio telefono come oggetto; non era più un portale verso un migliaio di altri posti, un aggeggio carico di riverenza e potenzialità e nemmeno un mezzo di comunicazione.

Era solo un rettangolo di metallo nero che giaceva in silenzio, come un maglione o un libro. L’unico uso rimasto era come torcia e timer. Con ritrovata pace mentale, lavorai al mio progetto indisturbata dalle informazioni e interruzioni che altrimenti sarebbero spuntate da quello schermo ogni minuto. In realtà, mi permise di cambiare la prospettiva sul mio uso della tecnologia.

Tuttavia, nonostante fosse stato così facile accettare con romanticismo l’idea di tagliare i ponti con tutto e di vivere come un’eremita in quella baita isolata, sapevo che, alla fine, sarei dovuta tornare a casa, dove mi aspettava il mondo e c’era del lavoro vero da fare.

L’esperienza mi fece pensare a Levi Felix, uno dei primi promotori del digital detox. La sua storia è un archetipo non solo di burnout tecnologico, ma anche di un occidentale che ha “ritrovato se stesso” in Oriente. Nel 2008, a ventitré anni, Felix lavorava settanta ore alla settimana come vice presidente di una startup a Los Angeles quando fu ricoverato per complicazioni dovute allo stress. Allarmato dall’accaduto, fece un viaggio in Cambogia con Brooke Dean, sua fidanzata e futura moglie; insieme riuscirono a staccare la spina e scoprirono la mindfulness e un tipo di meditazione dal gusto distintamente buddista.

Di ritorno dal viaggio, Felix e Dean notarono che “tutti i ristoranti, tutti i locali, tutti i bar, tutti gli autobus, tutte le metropolitane erano piene di persone che fissavano uno schermo”.

Con la missione di condividere la mindfulness scoperta all’estero, avviarono Camp Grounded, un summer camp digital detox per adulti a Mendocino, in California. Felix era particolarmente preoccupato per la capacità della tecnologia di creare dipendenza nella quotidianità.

Nonostante non intendesse ripudiarla totalmente, affermando di essere un “fanatico e non un luddista”, pensava che le persone avrebbero almeno potuto imparare ad avere con la tecnologia un rapporto più sano. “Mi piacerebbe vedere più gente guardare in faccia gli altri invece di fissare uno schermo”, diceva.

Arrivando a Camp Grounded, i visitatori passavano attraverso una “piccola tenda di controllo tecnologico gestita dall’International Institute of Digital Detoxification” in cui recitavano una promessa, guardavano un video di cinque minuti fatto con dei pupazzi e consegnavano i telefoni alle guide del campo che, con addosso tute protettive, li sigillavano in buste di plastica con l’etichetta “rischio biologico”. Accettavano così una serie di regole:

• Niente tecnologia digitale.
• Niente social network.
• Niente telefoni, Internet o altri schermi.
• Niente discorsi di lavoro.
• Niente orologi.
• Niente capi e superiorità.
• Niente stress.
• Niente ansia.
• Niente FOMO (paura di essere tagliati fuori).

In sostituzione di tutto ciò, i visitatori sceglievano tra cinquanta attività decisamente analoghe come “ricerca di tartufi superfood, terapia delle coccole, conserve sottaceto, camminare sui trampoli, yoga della risata, solar carving, coro e brunch in pigiama, scrittura creativa con macchina da scrivere, cabarettismo e tiro con l’arco”.

Tutto questo richiedeva una buona programmazione. Nel tributo a Felix, deceduto nel 2017 dopo una battaglia contro un cancro al cervello, Smiley Poswolsky scrive che “la sera Levi passava ore (letteralmente) in giro a piedi con il team della produzione, accertandosi che ogni albero fosse perfettamente illuminato per far provare a qualcuno il magico potere di trovarsi nella natura”.

L’estetica, la filosofia e l’umorismo folle del campo mostrano come l’atmosfera che Felix stava così meticolosamente creando si ispirasse nello specifico al Burning Man, di cui era un fan. Poswolsky ricorda con affetto quando Felix fu invitato a parlare, insieme a Dennis Kucinich, a IDEATE, un camp del Burning Man, cogliendo l’opportunità per evangelizzare:

Levi bevve un sorso di tequila, si fece un Bloody Mary e, con addosso un vestito bianco e una parrucca rosa, parlò per quarantacinque minuti dell’importanza di disconnettersi dalla tecnologia, mentre l’amico Ben Madden suonava un synth Casio in sottofondo. Non so dirvi esattamente cosa disse quella mattina perché ero delirante, ma ricordo che per tutti i presenti fu uno dei discorsi più ispiratori che avessero mai sentito.

(continua in libreria…)

Fotografia header: Credits Ryan Meyer

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