S’intitola “La scrittura non si insegna” il manuale per aspiranti scrittori di Vanni Santoni, che si rivolge a tutti coloro che sognano di diventare autori e autrici di romanzi e racconti. Il suo consiglio? Leggere molto e scrivere tutti i giorni… – Su ilLibraio.it un estratto

Leggere tanto e scrivere ogni giorno: sono questi i due imperativi categorici che Vanni Santoni impartisce ai lettori (aspiranti scrittori) del suo nuovo libro, La scrittura non si insegna, manuale di scrittura edito da minimum fax.

Vanni Santoni la scrittura non si insegna manuale di scrittura

Editor della narrativa Tunuè, collaboratore della Lettura, inserto culturale del Corriere della Sera, scrittore, autore (tra gli altri) de La stanza profonda (Laterza), L’impero del sogno (Mondadori) e I fratelli Michelangelo (Mondadori), Vanni Santoni, toscano, classe ’78, è anche un insegnante: tiene infatti corsi di scrittura, e il suo nuovo libro è una guida dedicata ad aspiranti autrici e autori, ai romanzieri in erba e a tutti coloro che coltivano il sogno di vedere il proprio nome stampato sulla copertina di un libro.

La scrittura non si insegna, afferma l’autore sin dalla copertina: in letteratura non esistono regole assolute, e non è possibile stabilire un metodo perfetto per costruire un buon libro, poiché la scrittura non è una scienza esatta; infatti Santoni non impartisce lezioni tradizionali, non fornisce una guida alla costruzione del personaggio, non snocciola le diverse modalità narrative di una storia e non si dilunga sull’utilizzo di spazio e tempo nel romanzo; due, sostiene l’autore, sono le cose da farsi, per diventare scrittore: leggere e scrivere.

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Leggere, sì, ma non a caso: lunghe liste di lettura affollano le prime pagine del manuale, elenchi di opere contemporanee, altre classiche, tutte imprescindibili (o quasi) e scelte apposta perché spalancano il cranio in due, mostrano possibilità, aprono mondi, offrono spunti, affinché lo studente/aspirante autore conosca le strade percorse dagli altri prima di poter tracciare la propria. Soltanto una volta fatta indigestione dei titoli assegnati si potrà passare al secondo precetto, che non deve seguire alcuna regola, se non la costanza: bisogna scrivere ogni giorno, anche quando si è stanchi, anche quando non si hanno idee, anche quando non ci si sente ispirati, con ferrea disciplina.

Tutto qui? Non è poco, a pensarci bene, e l’autore anticipa le obiezioni dei propri allievi, procede ad elencare le “Cose-Da-Non-Fare” e guida il lettore alla scoperta di un metodo che, nella sua esperienza di scrittore e insegnante, si è rivelato efficacie: La scrittura non si insegna, casomai si allena, si coltiva, si nutre.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it un estratto dal libro:

Una volta, rispondendo a un’intervistatrice che mi chiedeva di dar consigli agli aspiranti scrittori, dissi «leggere, leggere, leggere»: appena il pezzo fu pubblicato online, subito arrivò un omino nei commenti a boticar sulla scarsa originalità del suggerimento. Ma il buonsenso – non dico la saggezza – è per definizione semplice, così a volte può esser pure banale. Il nodo, infatti, non sono i precetti, quanto la loro applicazione.

La verità, infatti, verità che mi sento di definire tale a partire dall’osservazione di innumerevoli corsisti, è che una percentuale alta, molto alta, di chi vuole scrivere non ha letto e non legge abbastanza. Giudicando a partire da chi si iscrive a scuole o corsi di scrittura – persone, quindi, con un’ambizione sufficiente a fargli spendere denaro per alimentarla – in genere una persona su venti ha letto abbastanza. Il 95%, quindi, è già sulla strada sbagliata. Che vuol dire, però, «abbastanza»? E non sarebbe forse meglio dire «abbastanza buoni libri», onde evitare un assurdo primato della quantità sulla qualità? E quali sono, allora, i «buoni libri»?

Di solito, alla prima lezione di un mio corso, mi presento spiegando i principi della «dieta», e quindi assegnando una lista di libri da leggere. Comincia così:

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto
James Joyce, Ulisse

A questo punto gli studenti – di cui in genere non più del 10% ha letto l’uno o l’altro – si guardano tra loro, pensando a una provocazione. Provocazione che tale non è, spiego ogni volta, dato che, per chi aspiri a diventare romanziere, conoscere quelli che tuttora sono considerati i picchi dell’arte romanzesca è davvero il minimo sindacale, anche laddove non si avesse la minima intenzione di seguire le orme di Proust o quelle di Joyce.

Ma non è finita. In genere la lista che propongo, disattendendo chi a quel punto si aspetta un logico passo indietro e un’infilata di classici del romanzo ottocentesco, continua così:

2666, Roberto Bolaño
Underworld, Don DeLillo
Europe Central, William T. Vollmann
Abbacinante, vol. 1, vol. 2, vol. 3, Mircea Cartarescu
Infinite Jest, David Foster Wallace
Austerlitz, W.G. Sebald

È chiaro che vedendo un listino del genere (2666, 963 pagine; Underworld, 886 pagine; Europe Central, 1063 pagine; Abbacinante, 1556 pagine complessive; Infinite Jest, 1280 pagine; e il solo Austerlitz ammontante a dimensioni ragionevoli, 315 pagine), il sospetto di essere davanti a una provocazione si consolida, e c’è pure chi pensa direttamente che l’insegnante voglia fare il gradasso.

Nulla di più falso, a meno di prendere il termine provocazione in senso letterale. Quella che propongo a chi vuole scrivere, e vuole magari arrivarci in tempi decorosi, è infatti una lista volta a provocare una reazione, un sommovimento, un senso di sfida, una consapevolezza improvvisa delle vertiginose possibilità del romanzo. Dare in pasto a un aspirante scrittore questi libri non è soltanto utile perché sono lo stato dell’arte contemporaneo della forma romanzo, ma anche perché sono enormi, e se vogliamo anche imperfetti, e per questo pieni di porte d’accesso e forieri di infinite suggestioni.

Si tratta di una selezione operata attraverso l’esperienza: se non «darwinianamente», almeno per tentativi. Il fatto è che l’aspirante scrittore deve anzitutto cambiare il proprio approccio alla lettura. Così come un neonato che viene alla luce deve prendersi un paio di schiaffi sul culo (o, in tempi moderni, una grattata sulla schiena) onde aprire i polmoni, allo stesso modo questi macroromanzi saranno i primi schiaffi sul culo dell’aspirante scrittore. Schiaffoni però pieni di spunti. È per questo che in genere non do da leggere i racconti di Kafka o le Illuminazioni di Rimbaud, nonostante siano (per ragioni differenti e se vogliamo opposte) tra le prose che tengo in maggior conto. Insegnano meno, anzi rischiano di frustrare. Troppo genio, troppa qualità concentrata. Meglio, sempre meglio il romanzo-mondo: anche a chi non intende scrivere a sua volta romanzi-mondo, garantirà un’adeguata apertura degli alveoli.

A volte, giunti a questo punto (non siamo, infatti, neanche a un quinto della lista), si scopre che nessuno degli iscritti al corso ha letto i libri succitati (altre volte faccio in tempo a nominare anche il quinto e il sesto, che sono Pastorale americana di Roth e Meridiano di sangue di McCarthy, e allora si casca un po’ meglio), così, restando ogni volta sbigottito, chiedo se qualcuno abbia letto Tolstoj e Dostoevskij. Meglio che con Joyce e Proust, ma mai più di metà classe. E così finiscono dentro anche Anna KareninaGuerra e paceI fratelli Karamazov e I demoni. E Dickens no? «Signora, legga Dickens!», diceva Zweig. E allora sì, mettiamo dentro anche un Dickens. Tra tutti ho una particolare affezione per Oliver Twist, ma vanno bene tutti, Dickens è semplice ma profondo, e da lui si impara sempre.

A volte capita che ci sia lo studente preparato, il famoso «uno su venti», che quei libri là li ha letti quasi tutti. Allora assegno anche

L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon

…perché bisognerà pur tenere occupato anche lui; poi passo a Faulkner. In Italia Faulkner si è sempre letto (e tuttora si legge) poco, molto poco, ed è male, perché nella sua opera si concretizzano dispositivi strutturali divenuti indispensabili nel romanzo contemporaneo. Dentro allora Mentre morivo e L’urlo e il furore. In quest’ordine, ché il primo è più digeribile.

In genere, giunti che si è a questo punto, c’è sempre il furbetto che chiede perché non ci siano romanzi italiani in lista, se è vero che sto parlando a una classe destinata a scrivere in italiano. Il punto, senza scomodare la Weltliteratur, è che per affinare lo stile c’è tempo: prima è urgente aprire la mente alle reali possibilità della narrativa e riempirla di suggestioni, e per far ciò questi romanzi si sono dimostrati più adatti dei loro omologhi italiani, ma quando arriva quella domanda, onde evitare facili polemiche, ne metto subito dentro due, Kaputt e La pelle, entrambi di Curzio Malaparte.

Inevitabile segue il «perché non ci sono donne?» Be’, ho spiegato la prima volta, ce ne sono meno perché le donne per un sacco di tempo non hanno potuto scrivere libri, e quindi fanno meno parte del canone, quasi in proporzione al loro tardivo accesso al mestiere. Ma poi ho capito che non è una giustificazione sufficiente, perché il canone è sempre anche un fatto politico, e se ho stilato una lista così voleva dire che io stesso ero condizionato. Da allora non ho mai mancato di inserire Middlemarch di George Eliot e Gita al faro di Virginia Woolf, nonché Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan in rappresentanza del romanzo contemporaneo.

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E Jane Austen no?

Ma sì, Jane Austen sì. Dentro anche Orgoglio e pregiudizio, e pure Emma, va’, che è leggero e può essere utile a tirare il fiato tra un mattone e l’altro e intanto imparare a giocare col carattere dei personaggi.

E i racconti? Chiede in genere quello che vuole scrivere racconti, o che finora si è misurato solo con racconti.

I racconti, sì, specie se vuoi scrivere racconti. Anzi, ce ne sono alcuni che risultano indispensabili anche per chi vuole scrivere solo romanzi. Čechov. Salinger!

Alice Munro no?

E sì, Munro sì. E Barthelme, scommetto che qua dentro non lo ha letto nessuno. Come? Davvero c’è qualcuno nella stanza che non ha letto Borges? Ahinoi, due o tre ci sono ogni volta. Inseriamo…

(Continua in libreria…)

 

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