“La propensione a vedere i personaggi femminili di Márquez come tristi, emarginati, sommessi, viziati e viziosi è ben lontana dalla complessità dei loro caratteri”. Su ilLibraio.it un estratto dal nuovo libro “Memoria delle mie puttane allegre” di Carlotta Vagnoli, in cui l’autrice, content creator e attivista parla delle donne di “Cent’anni di solitudine”

Partendo dalle donne di Gabriel García Márquez, da Remedios e Pilar di Cent’anni di solitudine, nel libro Memoria delle mie puttane allegre (Marsilio) Carlotta Vagnoli (nella foto di Pietro Baroni, ndr), content creator e attivista, racconta la dicotomia “santa puttana” come il modello fondativo dell’Occidente.

Fiorentina classe 1987, Vagnoli ha iniziato a scrivere come sex columnist per GQ e Playboy nel 2015, e oggi usa i social (in particolare Instagram) per fare divulgazione sui temi riguardanti il linguaggio, la violenza di genere, gli stereotipi. Dal 2017, inoltre, tiene lezioni nelle scuole medie e superiori d’Italia per avvicinare studenti e studentesse al tema del consenso e fare prevenzione verso la violenza di genere. Nel 2021 ha pubblicato due libri, Maledetta sfortuna (Fabbri Editori) e l’ebook Poverine (Einaudi).

E veniamo ora a Memoria delle mie puttane allegre: se Macondo è un paese nella foresta circondato dal bosco dove si succedono generazioni di Buendía e ogni tanto arriva uno straniero, Marina di Castagneto Carducci – dov’è cresciuta l’autrice – ci somiglia abbastanza, se non fosse che a Macondo cercano il mare per tutto il tempo e a Castagneto Carducci ce l’hanno davanti. E a cos’altro somiglia un piccolo paese se non a una bolla social dove tutti pensano di vedere e sapere tutto di tutti, o almeno ci provano?

Prendendo a esempio le tenutarie di bordello, l’autrice svela la furbizia di presupporre i buoni sentimenti o i cattivi costumi delle donne e accompagna, dentro e intorno a García Marquez, a scoprire la possibilità di vivere avventure anche quando queste avventure sono sbagliate.

Copertina del libro Memoria delle mie puttane allegre di Carlotta Vagnoli

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

AMARANTA, REBECA E NONNA LUCIA, VITTIME DELLA SUPERFICIALITÀ DI CHI NON CELEBRA I PROPRI MORTI

Quando lessi per la prima volta la critica che attribuiva alle donne di Cent’anni di solitudine la pesantezza e il fatto di essere viziate, non ho potuto fare altro che storcere il naso. Ho sentito il bisogno di ricercare tra le pagine del libro tutte le caratteristiche che mi rassicuravano del contrario e che tanto me le hanno fatte amare, non come mere macchiette, bensì come personaggi a tutto tondo.

Ho così scoperto che le qualità che via via ripercorrevo attraverso i personaggi femminili erano anche quelle che più mi legavano alle donne della mia vita e della mia terra: l’osservazione delle persone all’interno di un ambiente tutto sommato ristretto mi è servita a capire quanto la complessità dell’animo umano, e specialmente di quello femminile, fosse più manifesta nel mio paese sul mare che nelle città e metropoli in cui ho abitato.

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Grazie alla lettura di Márquez scoprivo però anche un’altra cosa: le stesse caratteristiche che mi ritrovo a cercare nelle donne della mia vita sono quelle da sempre “sconsigliate” a una femmina, e cioè quelle che la renderebbero spiacevole agli occhi della società, perché considerate appannaggio del genere maschile. Trasportate sulla figura femminile, che per secoli la società maschilista ha voluto taciturna e sottomessa, creano un magnifico senso di straniamento.

Comprendo dunque che la prima reazione – ovvero l’abitudine culturale di ritenere le donne o sante o puttane, rumorose e fastidiose o signorili e taciturne – consista in una condanna, ma la potenza del ribaltamento e dell’abbattimento degli stereotipi di genere rende le figure femminili reali e tridimensionali, capaci di portare anche i sentimenti più spiacevoli in una dimensione di familiarità ed estrema tenerezza, rendendole umane attraverso pratiche inumane come, per esempio, il seppellirsi viva di Rebeca.

La stizza che si può provare davanti a loro deriva solo dalla scarsa abitudine nel vedere certi caratteri abbinati a figure che di per sé sono positive e propositive ma che, senza quelle incredibili sfaccettature di carnalità, diverrebbero sante donne angeliche, anziché le crudissime creature terrene che sono in realtà.

La concretezza di questa mia affermazione la rivedo nelle amiche di una vita: le loro personalità forti e sfaccettate scavallano le categorizzazioni di genere, le rendono terrene, risolute e risolutive, complete nella loro imperfezione.

La rivedo nella mia famiglia materna, dove noi donne ci siamo ritrovate in mano a uomini incapaci di vedere altro se non il potere e abbiamo fatto nostra la rabbia, rendendo il rancore un elemento positivo.

La rivedo nelle donne che fanno parte del mondo della cultura, considerate scomode perché occupano il posto che nessuna avrebbe mai voluto: quello della donna antipatica perché feroce, resiliente ma vendicativa, capace e consapevole di esserlo, con un’enorme faccia di culo a guarnizione.

E la rivedo nelle figure femminili che per me sono state fondamentali avendo fatto sempre da parafulmine per le altre, facendo loro spazio sobbarcandosi il peso di una morale dicotomica che le condannerà ogni volta come troppo o troppo poco.

Sostengo da sempre che, per affrontare anche quel famoso ricambio culturale di cui noi scrittori cosiddetti progressisti ci preoccupiamo tanto, è necessario riconsiderare alcune peculiarità caratteriali che troppo spesso sono state date in pasto alla morale e dunque suddivise tra “bene” e “male”: la rinomata scala di grigi serve proprio a contestualizzare i comportamenti umani come variabili personali e non incasellabili nelle sole categorie di giusto e sbagliato.

La propensione, dunque, a vedere i personaggi femminili di Márquez come tristi, emarginati, sommessi, viziati e viziosi è ben lontana dalla complessità dei loro caratteri. Nei libri di Gabo non ho mai visto puttane tristi, donne monodimensionali o fallimentari nello spirito che le anima. Ho visto donne imbracciare la propria inadeguatezza verso un certo tipo di mondo (e qui mi viene in mente la mastodontica Teresa Ciabatti con lo zainetto a forma di koala) destinato al fallimento facendone la loro principale peculiarità, a costo di essere allontanate, esiliate, rinchiuse in un convento, condannate alla solitudine o lasciate libere di murarsi vive in una casa.

(continua in libreria…)

Fotografia header: Credit Pietro Baroni

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