Non esiste un accordo su cosa significhi new wave: “No music on weekends” di Gabriele Merlini cerca, tramite aneddoti, suggestioni e reportage, di delinearne un ritratto musicale e storico, seppur parziale, in un viaggio che ci porta in quello che fu l’Occidente tra gli anni ’70 e ’80 – Su ilLibraio.it un estratto

Non esiste un accordo su cosa significhi new wave: alcuni l’hanno vissuta come una rinascita nel mondo del rock, per altri è stata solo una breve parentesi. A nominare questo genere è probabile che saltino in mente nomi di artisti tra di loro lontani. Gabriele Merlini, giornalista e scrittore appassionato di musica, con No music on weekends. Storia di parte della new wave (Effequ) ha provato a definire un fenomeno sfocato, ma comunque molto influente nella recente storia della musica, nel tentativo di capire quale eredità ci abbia lasciato la nuova onda degli anni ’80.

No music on weekends Gabriele Merlini

“No music on weekends” è una citazione di David Byrne, cantante dei Talking Heads, una delle band più famose che vennero inquadrate in questo genere. La citazione rimanda alla musica concepita come forma di lavoro, ed è espressa dall’esponente di un genere, nato e cresciuto tra anni ’70 e ’80, in cui la sperimentazione e la complessità ebbero un ruolo fondamentale.

L’autore, nato a Firenze nel 1978, collaboratore di riviste e quotidiani come Il Corriere della Sera e già scrittore per Effequ, intreccia la propria formazione musicale al suo tentativo di delineare questo genere sfuggente, del quale hanno fatto parte musicisti artisticamente agli antipodi, come i Joy Division, Franco Battiato e i Duran Duran.

Quello di Merlini è un saggio che non si ferma alla musica: indaga nel contesto storico della nascita di un genere che, come altri, non aveva a che fare solamente con le canzoni, ma anche con le idee e con la sensibilità di chi le ascoltava. In Italia, per esempio, la nascita della new wave coincise con gli anni di piombo e con le prime delusioni che seguirono il boom economico; la ricerca di dell’autore però non si ferma qui, e tocca, senza le pretese di un saggio storico, i momenti salienti vissuti dall’Occidente negli anni ’80.

Dove è nata la new wave, che significato ha avuto per chi l’ha vissuta, e infine cosa ci hanno lasciato le sue incursioni nel synth pop, nell’elettronica e nel punk? Merlini cerca di darci un’idea in un libro che raccoglie aneddoti, suggestioni e reportage filtrati dalle orecchie esperte di un appassionato di musica.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it un estratto:

Qualche dato propedeutico alla ricerca britannica in fase di partenza. Ecco cosa mi serve, in rigoroso ordine cronologico.

  1. Per l’Inghilterra il biennio 1978-1979 ha avuto ben poco da spartire con gli scintillanti anni Sessanta. Il glamour, le minigonne, le automobili decappottabili e i balli sfrenati agevolati da alcolici di prestigio che ondeggiano in coppe luccicanti. Mary Quant brinda con Peter Sellers prima di sgommare verso l’ennesima notte di eccessi: dimenticate la spensieratezza. Una ricostruzione che risponde a verità?
  2. Inflazione galoppante, i laburisti costretti a raschiare il Fondo Monetario Internazionale, il sindacato che infila uno sciopero dopo l’altro con lo scopo di destabilizzare la baracca. Immondizia per strada, elettricità razionata, tre giorni di lavoro alla settimana, eroina per contorno. Sarebbe servita una svolta? Conservatrice, radicale, autoritaria.
  3. Il primo mandato di questa signora chiamata Margaret Thatcher corrisponde al lasso di tempo che viene associato alla fase seminale del fenomeno new wave: dal 1979 al 1983. Rubricabile nella categoria scoperte banali il fatto che no, non fu una casualità.
  4. Bene interventi per favorire la crescita, meno bene il tasso di disoccupazione che aumenta quattro volte. Bene l’Housing Act (il diritto degli inquilini in abitazioni statali di comperare il fondo cui risiedono con pesanti agevolazioni fiscali), meno il tentativo fallito di abolire dalle istituzioni il termine sandinismo per compiacere impresentabili dittatori sudamericani: giusto? (Il gruppo inglese The Clash uscirà in quei mesi del 1980 con un album che, sempre casualmente, intitolerà Sandinista).
  5. Bene l’immagine della donna forte che sa come domare il cavallo imbizzarrito, meno bene se la facciata di ostentato decisionismo deriva da un assalto armato a una ambasciata londinese (30 aprile 1980), una guerra navale in Argentina (primavera 1982) e/o uno sciopero della fame destinato a sfociare in brutali rivolte antigovernative (Brixton: aprile 1981. Ancora casualmente una delle canzoni più conosciute di Sandinista dei Clash si intitolerà Guns of Brixton).

Del comparto per fortuna rimane un ottimo apparato iconografico: i bianchi e neri che sono in grado di restituire un eroismo più detonante rispetto ai coevi italiani. Negli scatti ogni faccia – saranno i panorami, il grigio dei palazzi e la desolazione sottoproletaria a incombere come se tutto fosse una estesa proiezione parrocchiale di Jubilee (1)– bercia la ferma decisione di rivoltarsi, combattere e se necessario immolarsi. Truppe di ragazzi in camicia bianca con maniche corte, bretelle e jeans alle caviglie avanzano compatti verso lo stadio, panacea di tutti i mali. Cortei di signore in abiti lunghi e l’inaspettata tendenza dei mariti a scagliarsi seminudi contro la polizia al netto del clima rigido. Gli intellettuali dai capelli biondi spalmati sulle ringhiere di Buckingham Palace con i manifesti Don’t Let Bobby Sands Die e i minatori lerci di carbone che cullano pargoli sonnacchiosi sulla riva di fiumi di merda.

Da un punto di vista musicale, erano anni che in Gran Bretagna stava sviluppandosi l’idea di etichetta indipendente come via d’uscita alle restrizioni imposte dai grandi marchi: maggiore libertà di movimento comporta maggiore possibilità di recapitare messaggi indigesti al potere, affrontare un governo vampiresco o sbattere i piedi davanti ai bobbies: ecco a cosa penso. La New Hormons fondata dal complesso punk Buzzcocks e il manager Richard Boon, la Cherry Red di Ian McNay, la Chiswick e la Stiff destinata a divenire una tra le principali label per la nascente new wave e, su tutte, la Factory di Tony Wilson che avrebbe prodotto una mastodontica mole di complessi imprescindibili per determinare lo stile in fase di maturazione: Joy Division, Happy Mondays, A Certain Ratio, James, Durutti Column (il logo della Factory creato da Peter Saville, il grafico di Unknown Pleasures, Transmission, My Life In The Bush Of Ghost, è una fabbrica stilizzata con ciminiera che fuma e mai scelta sarebbe stata più contestuale (2). Dalla parte dei lavoratori e contratti adeguati, nessuna firma su scartoffie, possibilità da parte dei musicisti di levare le tende rimanendo proprietari dei diritti e tanti saluti a casa: situazionisti uno, Margaret Thatcher zero. A voi gli affari del futuro).

La creazione del prolifico dipolo Manchester vs Londra dove sceglie di cambiare destinazione d’uso un negozio di dischi chiamato Rough Trade (1976) per farsi label (1978) grazie all’ingestibile dinamismo del proprietario (Geoff Travis) che tiene dritte le antenne sulle strambe derivazioni di quanto chiamano post-punk: gli si piazzeranno in salotto Scritti Politti, The Smiths e Young Marble Giants anche facilitato dalla vicinanza topografica della Rough con i principali centri nevralgici cittadini del settore (“i 101’ers di Joe Strummer suonavano nel vicino Elgin Pub e Mick Jones abitava vicino al cavalcavia della Westway” riporta Simon Reynolds in Post-Punk. Due passi dalla sede della Rough Trade nella “squallida ed economica Ladbroke Grove, una postazione londinese che garantiva un sufficiente transito di clienti grazie al suo mix di alternativi e rastafariani amanti del reggae, esponenti della popolazione locale originari delle Indie Occidentali”).

«Be’, fenomeno. Ci sto. Dimmi tutto».

Ecco cosa ripete al telefono colei che chiameremo Ally Whiteley che le sfumature le afferra al volo. Avvolgono la sua voce da operetta rumori di feedback a differenti frequenze e un’eco da cavea. Forse il frigorifero viene sbatacchiato. Prende carta e penna.

Si chiama movimento delle etichette indipendenti – inaugurato con l’esordio nel 1979 degli Stiff Little Fingers di Inflammable Material (Rough Trade) – e anche a lui dobbiamo la creazione di quanto pioverà sul Regno Unito con l’intento di sedimentarsi in un luminoso sentiero di gioia e amicizia. Dalla finestra dell’appartamento su Graham Road angolo Navarino ogni tanto ammiravamo l’uno accanto all’altra la flebile, trasparente luna di carta e quei trenini compiaciuti che, oltre il ponte in ferro battuto, sbuffavano maleducati diretti chissà dove.

1) Jubilee è un film del 1978 diretto da Derek Jarman. Definito come la prima – o migliore – pellicola punk della storia, ha per trama le vicende di un angelo che finisce nell’Inghilterra di fine Settanta tra chiese sconsacrate, degrado, discoteche e orge confusionarie.

2) “Tony Wilson, proprietario della Factory, non diceva ‘i New Order hanno appena venduto 100.000 album in Cina, ecco la vostra fetta di profitti’. Funzionava che Rob [Gretton, manager dei Joy Division] incassava le royalties andando nell’ufficio di Tony e chiedendogli i soldi in contanti. Se Tony li aveva, glieli dava; se no diceva a Rob di andare a fare in culo”. Peter Hook, Haçienda. Come non gestire un club, Luiss University Press, 2009.

(continua in libreria…)

Fotografia header: Getty Editorial gennaio 2020

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