“L’invasione dell’Ucraina è un grave crimine di guerra. È sempre opportuno ricercare spiegazioni, ma non ci sono giustificazioni o attenuanti”: esce in Italia, in anteprima mondiale, il nuovo saggio di Noam Chomsky (destinato a far discutere) – Su ilLibraio.it un estratto
In Perché l’Ucraina, libro pubblicato da Ponte alle Grazie in anteprima mondiale (e destinato a far discutere), Noam Chomsky delinea le cause dell’invasione russa, partendo da una premessa fondamentale: “L’invasione dell’Ucraina è un grave crimine di guerra. È sempre opportuno ricercare spiegazioni, ma non ci sono giustificazioni o attenuanti”. Citando documenti riservati, rendendo comprensibili nelle loro dinamiche i rapporti fra Russia, Stati Uniti, NATO, Unione Europea e Cina, Chomsky offre al lettore la possibilità di comprendere le ragioni profonde e le poste in gioco nella gravissima crisi.
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Chomsky, nato a Filadelfia nel 1928, è il maggior linguista vivente ed è considerato uno dei punti di riferimento della sinistra radicale internazionale. È professore emerito di linguistica al Massachusetts Institute of Technology. Ponte alle Grazie ha pubblicato, tra gli altri, Ultima fermata Gaza (con Ilan Pappé, 2010), Sistemi di potere (2013), I padroni dell’umanità (2014), Anarchia (2015), Terrorismo occidentale (con André Vltchek, 2015), Chi sono i padroni del mondo (2016), Tre lezioni sull’uomo (2017), Le dieci leggi del potere (2017), Ottimismo (malgrado tutto) (2018), Venti di protesta (con David Barsamian, 2018), La ragione contro il potere (con Jean Bricmont, 2019), La responsabilità degli intellettuali (2019), Crisi di civiltà. Pandemia e capitalismo (ebook, con C.J. Polychroniou, 2020).
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto da Perché l’Ucraina, che raccoglie sette interviste di C.J. Polychroniou e Valentina Nicolì (curatrice del volume, oltre che traduttrice, con Vincenzo Ostuni)
C.J. Polychroniou. Noam, l’invasione russa dell’Ucraina ha colto tutti di sorpresa e provocato un’onda d’urto in tutto il mondo, per quanto vi fossero numerosi segnali che Putin fosse indispettito dall’espansione a est della nato e dal rifiuto di Washington di ascoltare le sue richieste in merito a una «linea rossa» di sicurezza in Ucraina. Secondo te perché ha deciso di lanciare l’invasione proprio in questo momento?
Noam Chomsky. Prima di rispondere, dobbiamo precisare alcuni fatti incontestabili. Il più importante di tutti è che l’invasione russa dell’Ucraina è un grave crimine di guerra, al pari dell’invasione statunitense dell’Iraq e di quella di Hitler-Stalin della Polonia nel settembre del 1939, giusto per fare due esempi emblematici. È sempre opportuno ricercare delle spiegazioni, ma non ci sono giustificazioni o attenuanti.
Tornando alla tua domanda, molti elaborano con estrema sicurezza argute analisi sulla psiche di Putin. La versione più in voga è che sia colto da fantasie paranoiche, che agisca da solo, circondato da servili cortigiani del genere ben noto qui da noi, ossia gli ultimi residui del Partito repubblicano che si recano in pellegrinaggio a Mar-a-Lago a ricevere la benedizione del Capo. Questo genere di invettive può avere una sua fondatezza, ma forse possiamo prendere in considerazione anche altre possibilità. Forse ciò che Putin e i suoi collaboratori ripetono forte e chiaro da anni è proprio ciò che egli intende dire. Potrebbe essere, ad esempio, che «poiché la principale richiesta di Putin è sempre stata la rassicurazione che la Nato non ammettesse altri membri, e in particolare l’Ucraina o la Georgia, non ci sarebbe stato motivo di scatenare la crisi attuale se l’Alleanza atlantica non si fosse allargata dopo la fine della Guerra fredda, o quantomeno se questa espansione fosse avvenuta in armonia con la costruzione di una struttura di sicurezza in Europa che includesse la Russia». A scriverlo, poco prima dell’invasione, è l’ex ambasciatore degli Stati Uniti in Russia Jack Matlock, uno dei pochi veri esperti di Russia nel corpo diplomatico statunitense. Matlock aggiunge che la crisi «si può risolvere facilmente usando il buon senso […]. Secondo qualsiasi criterio di buon senso, è nell’interesse degli Stati Uniti promuovere la pace, non il conflitto. Cercare di far uscire l’Ucraina dalla sfera d’influenza russa – obiettivo dichiarato di quanti si sono entusiasmati per le ‘rivoluzioni colorate’ – è stata una sciocchezza, e anche pericolosa. Abbiamo dimenticato così presto la lezione ricevuta dalla crisi dei missili di Cuba?»
Matlock non è certo l’unico a pensarla così. Sui temi di fondo, le stesse conclusioni possiamo ritrovarle nelle memorie del capo della cia William Burns, anche lui tra i pochi veri esperti di Russia. Viene ampiamente, e tardivamente, citata la posizione ancora più forte di George Kennan, su cui concordano anche l’ex segretario alla Difesa William Perry e, al di fuori della cerchia diplomatica, il noto studioso di relazioni internazionali John Mearsheimer, così come numerose altre figure appartenenti a pieno titolo al mainstream.
Niente di ciò che affermano è oscuro. Da alcuni documenti riservati degli Stati Uniti, poi resi pubblici da WikiLeaks, emerge che subito dopo l’offerta sconsiderata di Bush figlio all’Ucraina di aderire alla nato la Russia lanciò una serie di avvertimenti sul fatto che quella minaccia militare non sarebbe stata tollerata. Comprensibilmente.
Per inciso, prendiamo atto dello strano modo in cui viene usato il concetto di «sinistra» quando si tratta di stigmatizzare una critica ritenuta troppo blanda alla «linea del Cremlino». Il punto è che, a essere onesti, non sappiamo perché quella decisione sia stata presa, e nemmeno se Putin l’abbia presa da solo oppure di concerto con il Consiglio di sicurezza della Federazione russa di cui lui è a capo. Ci sono invece alcune cose che sappiamo con una certa sicurezza, comprese quelle affermate dalle persone, appena citate, che sono ai vertici della pianificazione strategica statunitense. In parole povere, questa crisi ribolliva da almeno venticinque anni, mentre contemporaneamente gli Stati Uniti ignoravano sdegnosamente gli allarmi della Russia in merito alla propria sicurezza, e in particolare in merito alle loro linee invalicabili: la Georgia e ancor di più l’Ucraina. Per questo abbiamo ogni ragione di ritenere che questa tragedia si sarebbe potuta evitare, fino all’ultimo. Ne abbiamo già parlato più di una volta. Quanto alle ragioni per cui Putin abbia lanciato la sua criminale aggressione proprio in questo momento, possiamo fare ipotesi finché vogliamo. Ma il contesto storico generale non è ignoto – sottaciuto ma incontestabile.
È comprensibile, ovviamente, che coloro che subiscono i colpi di questo crimine considerino un’inaccettabile oziosità indagare sulle cause che lo hanno scatenato e se si sarebbe potuto evitare. Comprensibile, ma sbagliato. Se vogliamo reagire a questa tragedia in un modo che sia d’aiuto alle vittime ed eviti catastrofi ancora più gravi, è saggio e necessario cercare di comprendere il più possibile che cosa è andato storto e come si sarebbe potuto correggere la rotta. I gesti eroici possono essere appaganti, ma non sono utili. Come mi è già capitato altre volte, mi viene in mente una lezione che ho imparato molto tempo fa. Alla fine degli anni Sessanta partecipai a un incontro in Europa con alcuni rappresentanti del Fronte nazionale per la liberazione del Vietnam del Sud (i «Viet Cong» nel gergo statunitense). Fu in quella breve fase di fortissima opposizione agli orrendi crimini statunitensi in Indocina. I giovani erano talmente arrabbiati da pensare che solo con una reazione violenta si sarebbe data adeguata risposta a quelle mostruosità: rompere le vetrine per strada, lanciare molotov contro un centro addestramento ufficiali. Qualsiasi altra reazione sarebbe equivalsa a una complicità con quei crimini. I vietnamiti vedevano le cose in maniera completamente diversa. Erano fermamente contrari ad azioni di quel tipo. E infatti misero in atto il loro modello di protesta efficace. Alcune donne, per esempio, rimasero in piedi in silenziosa preghiera sulle tombe dei soldati americani uccisi in Vietnam. Non gli interessava ciò che faceva sentire retti e nobili gli oppositori americani alla guerra. Volevano solo sopravvivere.
È una lezione che mi è capitato di ritrovare spesso, in una maniera o nell’altra, tra le vittime delle atroci sofferenze subite dal Sud globale, bersaglio prediletto della violenza imperiale. Una lezione che dovremmo imprimere nella nostra mente, adattandola alle circostanze. Oggi, questa lezione ci esorta a fare uno sforzo per capire perché questa tragedia si è verificata e cosa si sarebbe potuto fare per evitarla, e per applicarla agli eventi futuri.
È un tema che scava in profondità. Non è il caso di ripercorrere adesso questa questione di fondamentale importanza, ma la reazione a una crisi reale o immaginaria è sempre stata quella di mettere mano alla pistola invece di porgere il ramoscello d’ulivo. È quasi un riflesso condizionato, e le conseguenze in genere sono terribili, per le vittime di sempre. Vale sempre la pena cercare di capire, di pensare alle probabili conseguenze dell’azione o dell’inazione. Sono cose scontate, che pure vale la pena di ribadire perché si tende facilmente a dimenticarle nei momenti di pur legittima partecipazione. Le scelte che rimangono in piedi dopo l’invasione non sono molto esaltanti. La meno peggio è sostenere gli spiragli diplomatici che ancora esistono, nella speranza di pervenire a una soluzione non troppo distante da quella che solo fino a qualche giorno fa sarebbe stata probabilmente raggiungibile: un’Ucraina neutrale sulla falsariga dell’Austria, all’interno di una qualche forma di federalismo sul modello del Protocollo Minsk II. Un accomodamento molto più difficile da raggiungere oggi. E – di necessità – assicurare una via di fuga a Putin, altrimenti gli esiti saranno ancor più funesti per l’Ucraina e per tutti gli altri, forse oltre ogni immaginazione. È una soluzione molto poco giusta, lo so. Ma quando mai la giustizia ha prevalso negli affari internazionali? Serve forse ripercorrere ancora una volta tutti i casi spaventosi che conosciamo? Che piaccia o no, le scelte si sono assottigliate al punto di dover premiare, invece che punire, Putin per questo atto di aggressione. Diversamente, vi sarà la forte possibilità di una guerra finale. Magari può essere gratificante costringere l’orso in un angolo e lasciarlo sbraitare in preda alla disperazione. Ma non sarebbe granché saggio. Nel frattempo dobbiamo fare tutto il possibile per dare sostegno a coloro che difendono valorosamente la loro patria dai crudeli aggressori, a coloro che fuggono dagli orrori e alle migliaia di coraggiosi russi che si oppongono pubblicamente al crimine del loro Stato con grande rischio per sé stessi: una lezione per tutti noi. Dobbiamo però anche trovare il modo per venire in soccorso di una categoria ben più ampia di vittime: tutti gli esseri viventi del pianeta. Questo flagello arriva in un momento in cui tutte le grandi potenze, anzi tutti noi dobbiamo lavorare insieme per tenere sotto controllo il grande flagello della devastazione ambientale che già adesso esige un pesante tributo, e i cui effetti saranno molto più nefasti se non verranno prese al più presto misure decisive. Giusto per ribadire l’ovvio, l’ipcc ha appena pubblicato il suo ultimo e di sicuro più inquietante rapporto in cui si spiega che ci dirigiamo verso la catastrofe. Intanto le necessarie azioni di contrasto sono state bloccate, anzi sono addirittura destinate a una retromarcia, poiché le indispensabili risorse vengono dirottate verso la distruzione e siamo sulla buona strada per espandere l’uso dei combustibili fossili, compreso il più pericoloso, economico e abbondante: il carbone. Una congiuntura più macabra non l’avrebbe potuta immaginare un demone malvagio. Ma non possiamo far finta di niente. Ogni istante è prezioso.
(continua in libreria…)
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