“L’italiano è bello” è il nuovo libro di Mariangela Galatea Vaglio: un viaggio nel tempo dagli albori ai giorni nostri per raccontare la storia della lingua e ricordare che la grammatica non è nostra nemica… – Su ilLibraio.it il capitolo dedicato agli “orrori” grammaticali e ortografici

L’italiano è bello (Sonzogno) è il nuovo libro di Mariangela Galatea Vaglio, insegnante, giornalista e blogger, in cui inizia il lettore alle bellezze della lingua italiana, in un’epoca in cui si discute molto di grammatica ed evoluzione dell’italiano nell’era dei social.

Con ironia e precisione scientifica, l’autrice guida i lettori nel viaggio della trasformazione della lingua italiana lungo il corso dei secoli, partendo dall’esplosione dantesca, dal dominio culturale nell’Europa rinascimentale, fino ad arrivare ai giorni nostri, in cui la lingua italiana sembra dover sgomitare per farsi sentire in un mondo di inspirational manager, babysitter e personal trainer

Vaglio aggiunge anche un sintetico ripasso dei fondamentali di ortografia e grammatica: viviamo nell’era della comunicazione, e proprio per questo è importante utilizzare una scrittura non solo brillante ed efficace, ma anche corretta e dignitosa. L’autrice ha già pubblicato sull’argomento: tra i suoi libri, ricordiamo Piccolo alfabeto della scuola moderna (40k Unofficial 2012), Didone, per esempio. Nuove storie dal passato (Ultra 2014) e Socrate, per esempio. Altre storie dal passato (Ultra 2015).

Mariangela Galatea Vaglio L'italiano è bello

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto:

L’ortografia: piccole storie horror

Storie di accenti: non accentate quella lettera!

«Sono un uomo molto impegnato che fà tante cose» scrive convinto in chat il tizio che aspira a colpire la fanciulla dall’altra parte dello schermo. Ecco, fra le tante cose fatte, le scuole elementari non devono essere contemplate. Se c’è una cosa che internet ha reso difficile è millantare la preparazione che non si ha. Noi donne siamo esigenti, soprattutto quando abbiamo un minimo sindacale di cultura: tendiamo a riconoscere subito i corteggiatori che affermano di avere alti titoli di studio, ma poi cadono in banali erroracci. Gli aspiranti casanova di un tempo, avevano, ammettiamolo, vita più facile, per lo meno dagli anni Cinquanta in qua. Era infatti rarissimo che fossero costretti a lasciare tracce scritte dei loro tentativi maldestri di seduzione. Fino agli anni Novanta, in pratica, ci si parlava dal vivo, o ci si telefonava, il che era un indubbio vantaggio per chi non aveva un buon rapporto con l’ortografia. Se dici a una ragazza: «Stà con me per sempre», lei non si può accorgere che hai pensato «sta» con l’accento e non con l’apostrofo. Se lo scrivi in un messaggino su WhatsApp sì, e il rischio di beccarsi un due di picche è dietro l’angolo. In italiano i casi in cui è obbligatorio scrivere l’accento non sono nemmeno tanti, ma riusciamo a sbagliarli con ammirevole frequenza.

Tanto per cominciare va sfatata una falsa credenza: tutte le parole hanno un accento. L’accento, infatti, segnala la sillaba e la vocale su cui la voce si appoggia per pronunciare la parola. Se una parola non avesse accento, sarebbe impronunciabile. Pensate ai versi di poesie o canzoni: suonano così bene alle nostre orecchie proprio perché le parole sono scelte con accenti adatti a creare il ritmo, e questo vale da Leopardi a Jovanotti, passando per De André:

La donzellètta vièn dalla càmpagna / ìn sul calàr del sòle

La chiamàvano Bòcca di Ròsa / mettèva l’amòre sòpra ogni còsa

Casèlli d’autostràda tùtto il tèmpo si consùma / Ma  Vénere riappàre sèmpre frèsca dalla schiùma

L’accento ha bisogno di una vocale a cui appoggiarsi, perché le lettere vocali sono quelle che hanno un suono proprio e consentono un’emissione di voce. Infatti il nome vocale deriva dal latino vocare, emettere suono con la voce, mentre consonante deriva da consonare, suonare assieme, risuonare. Insomma, se fossimo in un coro, le vocali sarebbero le soliste e le consonanti farebbero da accompagnamento.
Vocali e consonanti formano sillabe, e la sillaba tonica (in greco tonos vuol dire “accento”) è quella su cui l’accento si appoggia. In italiano, tuttavia, e per nostra fortuna, non è necessario scrivere l’accento su tutte le parole. Per gli stranieri che imparano la nostra lingua è un incubo, perché non hanno spesso idea di quale sia la pronuncia corretta, ma noi siamo un popolo pigro e che tendenzialmente va a orecchio. Alle volte questo produce però tremendi scivoloni: si sente dire anche da gente colta rùbrica al posto di rubrìca, leccòrnia al posto di leccornìagratuìto al posto di gratùito, e persino càlcare al posto di calcàre, nonostante mezzo secolo di pubblicità martellanti sui detersivi per pulire il bagno.
Se si hanno dei dubbi su dove cada l’accento in una parola, si consulta il dizionario, che si chiama così perché non solo spiega il significato della parola (il lemma), ma segnala anche dove cade l’accento, ovvero spiega la dizione, cioè come la parola va pronunciata.
In italiano è obbligatorio segnare l’accento solo sulle parole tronche, ovvero quelle che terminano con la sillaba accentata, come virtù, bontà, felicità, sarà, verrà, mangerà, dormirò. Va inoltre segnato sui monosillabi che hanno però due vocali, per chiarire su quale delle due la voce si debba appoggiare pronunciandole: giù, già, ciò, più.
In quasi tutti gli altri casi l’accento non si deve mettere, soprattutto perché è inutile. Prendiamo il caso di prima, ovvero sta/sto. È un monosillabo con una sola vocale, quindi l’accento può andare solo su quella lettera lì. Perché diavolo dovrei sprecare inchiostro scrivendo stò o stà? O per scrivere  e fà? Qua, su, tre, re, blu, so, sa, qui, qua sono parole che possono essere pronunciate solo in un modo, quindi non hanno bisogno di accento. Non regalategliene uno, non saprebbero che cosa farsene, come Carrie Bradshaw di un paio di scarpe non firmate. Esistono monosillabi che devono essere accentati, ma solo perché altrimenti potrebbero essere confusi con altre parole che vengono scritte nella stessa maniera (si chiamano omografe). I più dispettosi monosillabi da tenere sempre d’occhio sono e, da, va, diE senza accento è congiunzione, e serve a unire due parole o due frasi: «Ho preso pane e latte», «Sono uscito e ho incontrato Mariella». Con l’accento è invece la terza persona singolare del presente del verbo essere: «La cena è sul tavolo», «Carla è una ragazza simpatica». Confondersi è un attimo, ma ricordate che un trucco utile è sostituire la e che vi suscita dubbi con l’imperfetto era. Posso dire infatti «la cena era sul tavolo», ma non «ho preso pane era latte»; «sono uscito era ho incontrato Mariella». Se la frase non ha più senso, la e è una semplice congiunzione e va scritta senza accento.
Da senza accento è una preposizione semplice: «Sono andata da Carlo», «Da Milano a qui sono tre ore». Quando invece volete indicare la terza persona singolare del presente di dare dovete usare l’accento: «Questo film mi dà grandi emozioni», «Enrico dà lezioni di tango». Attenzione, però: esiste un terzo da: da’ con l’apostrofo, che è la seconda persona dell’imperativo del verbo dare, ovvero un dai che ha perso la finale: «Da’ a Mariella i piatti per apparecchiare», «Da’ un’occhiata ai bambini mentre giocano».

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Anche di può essere uno e trino: esiste di preposizione semplice, che si scrive senza accento e apostrofo: «Il quaderno di Maria», «Di giorno e di notte fate sempre troppa confusione». Esiste poi un accentato, che significa “giorno”: «Notte e dì», «La sera del dì di festa». Infine c’è un terzo di’ con l’apostrofo, anche qui imperativo presente del verbo dire: «Di’ tutto quello che sai!»
Va invece molto spesso si ritrova accentato senza motivo: è un monosillabo e non ha omografi, quindi va scritto senza accento quando è terza persona singolare del verbo andare: «Roberto va a casa tardi stasera», «La fortuna va e viene». Deve essere invece scritto con l’apostrofo quando è imperativo presente del verbo andare: «Va’ a prendere Carlo alla stazione!» Qua l’apostrofo segnala la perdita della i finale di vai.

sonzogno

Lo so, state pensando: «Questi lo fanno apposta a complicare le cose!» e probabilmente avete anche ragione, perché non si può escludere che una sottile vena di sadismo alberghi in chi decide di occuparsi di grammatica. Però si possono vincere i grammatici facilmente al loro stesso gioco capendo la logica delle regole. A quel punto accenti e apostrofi non saranno più quelle robe che si seminano a caso, ma, se non proprio degli amici, almeno dei simpatici conoscenti che si frequentano senza troppi problemi.

Storie di apostrofi: il cartello TORNO SUBITO

Avete presente quando andate in un negozio, trovate la porta chiusa e sulla vetrina un cartello con su scritto: TORNO SUBITO?  Bene, l’apostrofo in italiano funziona nello stesso modo. Quando una lettera, o meglio, una vocale, se ne va a prendere un caffè, siccome è una lettera educata, lascia un piccolo pro- memoria al lettore: «Guarda, sono uscita un attimo, ma non ti preoccupare, appena posso torno.» Se quando scrivete vi dimenticate gli apostrofi, il vostro povero lettore resta perplesso. È smarrito: non sa se deve restare lì ad aspettare o la vocale se n’è andata per sempre e ciao. Peggio di una puntata di Chi l’ha visto?. Quando la vocale se ne va per un po’ ma poi ritorna, il fenomeno si chiama elisione. Di solito le vocali spariscono temporaneamente per motivi ben precisi e in casi ben determinati: non è che vi piantano in asso senza un perché.

Tanto per cominciare, le vocali se ne vanno solo quando sono alla fine della parola e dopo di loro c’è una parola che comincia anch’essa per vocale. Si può dire sull’altalena ma non nell’giardino, l’insalata ma non l’bistecca. Questo perché l’elisione è un fenomeno nato per facilitare la pronuncia e la lettura delle parole. Si può anche dire sulla altalena, per carità, ma il nostro orecchio un po’ si schifa, e quindi mettiamo l’apostrofo per chiarire che quelle due lettere a non vanno in realtà pronunciate e ne resta una sola, quella di altalena. Quella di sulla si prende una pausa e va a fare un giretto per i fatti suoi, ché ogni tanto due minuti liberi sono una mano santa pure per le lettere dell’alfabeto. I casi in cui le vocali si possono concedere una boccata d’aria sono:

-on gli articoli determinativi lo e la: l’albero e l’agenda, e anche in tutti i casi in cui lo e la formano una preposizione articolata: dell’albero, nell’agenda, all’artista. Attenzione, però: l’articolo la può perdere la sua a solo al singolare, ma l’articolo le non perde mai la e al plurale. Posso dire l’agenzia, ma non l’agenzie. Lì devo scrivere le agenzie, le industrie.

Per il lo il problema del plurale nemmeno si pone, perché al plurale lo fa gli, perciò in ogni caso non si elide;

-l’aggettivo bello ci tiene a essere pronunciato bene, quindi di fronte a vocale vuole suonare al meglio e perde la o. Si scrive infatti bell’affare, bell’uomo;

-anche con santo e santa c’è elisione. Si scrive infatti Sant’Agostino e Sant’Agnese. Con l’apostrofo, mi raccomando, oppure i santi che cominciano per vocale si arrabbiano come se gli aveste tolto l’aureola;

-con l’avverbio di luogo ci davanti alle voci del verbo essere: c’è, c’erano, c’era. Attenzione, anche qua lo potete fare solo quando il ci è un avverbio di luogo (ci era equivale a era qui). Quando invece si tratta del pronome personale complemento ci (come in ci ama, ci ha invitato), che quindi vuol dire “a noi/noi”, non potete elidere mai. Del resto c’ama non si può sentire: vi fareste odiare subito. Inoltre il ci non può essere eliso davanti alla acca. C’ho non si può scrivere.

La regola infatti dice che il ci si elide solo con le vocali. La acca è una vocale? No. Quindi c’ho, c’hanno non si scrive, o meritate di venire colpiti con l’apostrofo stesso a mo’ di scudiscio;

-in alcuni modi di dire e frasi fatte come tutt’al più, quant’altrosenz’altro, nient’affatto, d’ora in poi, quand’anche, d’altra parte e d’altronde. Sì, d’altronde si scrive con l’apostrofo e non dal tronde, non esistendo la parola «tronde» in italiano.

Voi resterete magari stupiti che esista invece la parola altronde. Eh, invece esiste, anche se viene usata esclusivamente, in pratica, in questa locuzione. Alle volte la lingua sembra bizzarra assai.

Non si possono elidere invece le vocali finali quando li e le sono pronomi personali: le aspetto, li interpello. E se mai vi venisse in mente, no, non si possono elidere mai le vocali finali degli avverbi di luogo e , perché si possono togliere, elidere e far sparire solo le vocali non accentate. Quelle accentate devono restare dove sono, perché abbiamo detto che l’accento segna il punto dove la voce si appoggia, se glielo togliete la voce sbarella e casca tutto. In tutti gli altri casi in cui avete una parola che finisce per vocale e una che inizia per vocale sta a voi decidere. Potete scrivere anch’egli o anche egli, lo ascoltò o l’ascoltò, un’arancia una arancia. È una questione di scelta stilistica, o anche di come vi gira al momento. L’importante è che non dimentichiate di mettere l’apostrofo nei casi in cui è obbligatorio, o il vostro povero lettore è destinato a restare lì chiedendosi se la vocale tornerà, se si è persa, se mai la rivedremo. Il che, per carità, può generare una certa suspense, ma non è il caso di scatenare il panico a vuoto, nemmeno se state scrivendo un thriller. Storie di abbandoni: il troncamento, ovvero quando la vocale non torna più

Avete presente invece quelle vecchie barzellette in cui il marito dice serio serio alla moglie: «Esco un attimo a prendere le sigarette?» e invece puffete, sparisce e non si fa rivedere mai più? Ecco, in quel caso non siamo più in presenza di un’elisione, ma di un troncamento. Il troncamento è proprio un divorzio: la vocale se ne va e la povera parola, forse dopo un periodo di depressione da abbandono, si rifà una nuova vita, autonoma e piena di soddisfazioni.

Il troncamento più famoso con cui abbiamo a che fare è l’articolo indeterminativo un. Alcuni credono che un sia una elisione da uno e scrivono con l’apostrofo un’altro, un’orto esattamente come al femminile si scrive un’opportunità. Ma nel femminile un’opportunità è sparita momentaneamente la lettera a davanti a un’altra vocale, mentre in un altro la vocale che un tempo c’era se n’è andata per sempre e un è diventata una parola indipendente. È un articolo dotato di vita propria, tanto è vero che lo troviamo anche davanti a parole che iniziano per consonante, come in un bagno, un piano, un ricciolo. Non sta ad aspettare che la sua vocale perduta torni. Ha un’esistenza piena di soddisfazioni ed esce con gente nuova, che prima non poteva frequentare. Non ha bisogno di un apostrofo che gli ricordi la sua vita passata: ha svoltato, come si dice.

Troncamenti sono buon da buono, san da santo, gran da grande. Si dice infatti un buon uomo ma anche un buon pastosan Giovanni (mentre davanti a vocale bisogna usare sant’), gran mangiata.

Uno dei troncamenti più famosi e complicati da gestire in italiano è qual. Qual, fatevene una ragione, è una parola a sé. Non ha bisogno di apostrofi perché non ha perso nessuna vocale davanti alla vocale che segue. È proprio così e basta, e si scrive uguale sia davanti a vocale (qual è) sia davanti a consonante (qual buon vento ti porta?). Quindi no, non si può scrivere qual’è. Anche se lo hanno fatto persino Pirandello in tempi più lontani e Saviano in quelli più recenti. Risparmiamo dunque l’inchiostro dell’apostrofo. Ci risparmieremo anche una brutta figura.

Il po’, ovvero quando il troncamento vuole l’apostrofo

Sì lo so, vi ho appena fatto una capa tanta dicendo che il troncamento non vuole l’apostrofo, che la parola si rifà una vita e ciao al passato. Però ci sono almeno tre casi di troncamenti italiani dove l’apostrofo, invece, è d’obbligo, ed è meglio conoscerli perché si tratta di parole che usiamo assai spesso, quasi sempre sbagliando la grafia. Si tratta di po’, mo’ e be’.

I tre vocaboli sono accomunati da un trauma: non hanno perso solo una vocale finale, ma un’intera sillaba. Tecnicamente questo fenomeno si chiama anche apocope, ovvero «taglio» in greco. In pratica un pezzo di parola è stato amputato come una gamba o un arto. Po’ deriva da poco, mo’ da modo be’ da bene.

La tragedia li ha quasi annichiliti: sono rimasti dei poveri monosillabi. Mentre gran, che deriva da grande, della perdita si è fatto una ragione e vive beato senza apostrofo, i nostri tre non si sanno dare pace. Infatti continuano a voler essere scritti con l’apostrofo, come se sperassero ancora che la sillaba perduta torni prima o poi da loro.

Dei tre, quello che lavora meno è mo’. Nell’italiano corrente non si usa quasi più tranne che nella locuzione a mo’ di. Può significare anche “ora”, “adesso”, e in quel caso può essere scritto senza apostrofo o accento.

Po’ invece è uno stakanovista. Si infila dappertutto. Si può volere un po’ di salsa, un po’ di sale, un po’ di fortuna, un po’ di riposo e, nel nostro mondo caotico, non sarebbe male trovare alle volte un po’ di pace. Purtroppo, da quando la tecnologia dei cellulari ha inventato il correttore ortografico e il T9 la vita del po’ è diventata grama. Per qualche strano motivo, i telefonini di ogni marca e fascia di prezzo hanno deciso che po’ si scrive , mandando il povero monosillabo, già tanto provato dalla vita, in crisi di identità. Con tutto il rispetto per le tecnologie innovative, po’ si scrive solo con l’apostrofo. Il T9 in italiano con simili errori può aspirare al massimo a un cinque meno.

Il be’ è un termine molto usato, soprattutto nel parlato. I problemi sorgono quando bisogna passare allo scritto. Qui scatena tempeste di dubbi: si scrive be’, bè o beh? La forma più corretta resta be’. Beh però è accettabile perché è una esclamazione al pari di mah e boh, mentre del tutto assurda è la variante bhé, bhe con un’acca calata in mezzo per qualche incomprensibile motivo. Bè, invece, non è nemmeno il verso delle pecore. Deve essere un altro parto infelice del T9 o di un seminatore seriale di segni diacritici che sparge a caso accenti su tutti i monosillabi che incrocia. Ognuno ha i propri passatempi, del resto.

Storia di una lettera fantasma: la acca

La acca, maledetta lei. Generazioni di italiani per causa sua piangono sui banchi delle elementari calde lacrime. Anzi, per essere precisi, persino per piangere calde lacrime sui banchi hanno bisogno prima di capire come funziona questo segno malignissimo. Altrimenti finiscono per piangere calde lacrime sui banci. L’acca è come l’acqua nel bicchiere o l’aria. Quelle non si vedono, l’acca, invece, non si sente. È una lettera muta. Per gli italiani che sono abituati a pronunciare tutte le lettere, l’acca è uno choc.

È una lettera che ha alle spalle una storia complicata, avvincente e persino poetica. I linguisti la indicano con il nome di fricativa glottidale, che è un nome orribile per indicare però un’azione graziosa: il soffio di aria che uscendo dalla laringe fa vibrare come le ali di una farfalla la glottide. L’acca è questo: un sospiro, un fremito, un alito leggero. Ecco, forse troppo leggero. Fin dai tempi del latino la acca si sentiva pochissimo, anzi quasi per nulla, e quindi scomparve nel volgare italiano, soprattutto se si trovava all’inizio della parola. Fu introdotta invece per indicare i suoni ch e gh, cioè la k e la g dura. Nel latino classico, cioè quello che si parlava ai tempi d’oro di Roma, nell’età di Cicerone e Cesare, la c e la avevano sempre un suono duro (erano anche poco distinte fra loro, tanto è vero che Caius Iulius Caesar poteva essere chiamato indifferentemente Caius o Gaius). Non esisteva il suono di c e g dolce: quello, per capirci, che usiamo quando pronunciamo ciao e gioco.

Invece in italiano la c e g dolci esistevano, quindi era necessario trovare il modo di segnalare quando le due lettere rimanevano dure, anzi durissime. Pian piano si impose allora l’abitudine di affiancare al segno c la h quando dopo c’erano una i o una e. Quindi si decise di scrivere che, chela, chiesaChianti. Anche la g seguita da h è una g dura, come in gheriglioghirigoro, ghiro, ghianda. Davanti alla lettera a invece né la g né la c hanno bisogno dell’acca, perché sono sempre e soltanto dure, come in gatto e casa.

L’acca iniziale di parola ancora veniva usata ai tempi di Dante e di Petrarca (homo, honore, honorato), ma forse più per “nobilitare” le parole ricordandone la grafia latina che per segnalare un’aspirazione realmente presente nella pronuncia. Sparì lentamente nel corso del tempo, dato che era del tutto inutile. Visto che la acca era una aspirazione, si decise molto semplicemente che era fiato sprecato. La si mantenne però in alcune voci del verbo avere: ho, ha, hai e hanno, che rischiavano di creare problemi di comprensione al lettore, perché sarebbero state scritte in maniera uguale alle preposizioni o, aai, o al nome anno.

Molti italiani a secoli di distanza continuano a non capire quando si debba usare l’acca e quando no e i temi scolastici dei ragazzini, ma anche testi scritti da insospettabili professionisti, riportano frasi del tipo: «Lo chiedo hai diretti interessati», «Non sapevo se scrivere ho chiamare», oppure: «Ai preso il prosciutto per cena?», «Ti o chiamato prima ma non rispondevi».

Per evitare gli strafalcioni, le vecchie maestre delle elementari suggerivano agli alunni questo trucco: sostituire con l’imperfetto le forme che al presente suscitano dubbi, cioè ai, a, anno. Se la frase fila (es: quanti anni ai/hai > quanti anni avevi?) allora si tratta di una forma del verbo avere e si scrive con l’acca; se invece la frase diviene incomprensibile (Dico questo a/ha te > Dico questo aveva te) allora la parola non è un verbo e va scritta senza acca. Ma da quello che si legge in giro, moltissimi devono aver avuto maestre elementari più moderne ma anche più distratte.

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Tuttavia all’acca siamo affezionati. Nel 1911 al Congresso della Società Ortografica Italiana si propose l’idea di sostituire l’acca iniziale del verbo avere con l’accento, cioè scrivere ò, à, ànno con l’accento al posto di ho, ha e hanno. Alcuni libri delle elementari a cavallo fra le due guerre mondiali caldeggiarono questa nuova grafia, che però non riscosse gran successo. La sostituzione dell’acca con vocali accentate fu adottata da Valentino Bompiani nel 1947 nel suo monumentale Dizionario delle opere e dei personaggi, ma per un motivo economico: in un periodo difficile come quello del secondo dopoguerra, qualunque stratagemma consentisse di risparmiare un po’ di carta e inchiostro era apprezzato. Si dice che con questo e altri  piccoli accorgimenti sia riuscito a ridurre l’opera di un intero volume. O almeno così sosteneva Umberto Eco, che pare si sia preso la briga di calcolare l’impatto globale di queste scelte editoriali sull’opera.

Gli italiani, tuttavia, si rivelarono insospettabilmente attaccati all’acca e ritennero che fosse un lusso che potevano continuare a concedersi. Continuarono a usarla, perché il cuore ha delle ragioni che la ragione ignora, e qualche volta anche l’ortografia si fa convincere dal sentimento. L’acca restò quindi davanti alle forme del verbo avere. Probabilmente, per quanto muta, si tolse lo sfizio di commentare la vittoria con un solennissimo: «Tiè!» Senza acca, ma con immensa soddisfazione.

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