A cosa serve la letteratura per chi fa rock? Come concorrono i libri a formare l’immaginario di un musicista? Più di una risposta è in “Rock Lit”, saggio di Liborio Conca – Su ilLibraio.it un estratto

A cosa serve la letteratura per chi fa rock? Come concorrono i libri a formare l’immaginario di un musicista? Più di una risposta è in Rock Lit, saggio di Liborio Conca in libreria per il nuovo marchio Jimenez Edizioni, il primo della collana dedicata al crossover musica e letteratura.

L’autore, giornalista, caporedattore di minima&moralia, già curatore della rubrica letteraria de Il Mucchio Selvaggio, mette in fila i temi, le ispirazioni e gli artisti in un percorso poco enciclopedico e molto immaginifico.

rock lit

Musica e letteratura si incontrano, questo è un fatto. Tra le pagine di Rock Lit scrittrici e scrittori sono affiancati a band e cantautori, mentre temi e paesaggi della letteratura si riversano nella musica. È così che si scopre come William S. Burroughs, Albert Camus, Flannery O’Connor e molti altri abbiano ispirato artisti pop, rock, punk (e jazz e funk e country…) influenzandone non solo l’opera, ma l’intera vita.

In questo libro incontriamo Bob Dylan fulminato sulla via della letteratura beat, Robert Smith dei Cure che da adolescente legge Lo straniero e scrive di getto Killing an Arab, William S. Burroughs e la sua tecnica di scrittura – il cut up – che ha influenzato Patti Smith, Michael Stipe dei R.E.M. e Kurt Cobain. I Radiohead e George Orwell. Ma facciamo anche un giro di giostra nella narrativa Southern Gothic, fondamentale per artisti come Sparklehorse o Nick Cave, e scopriamo il ruolo di Alice, il personaggio creato da Lewis Carroll, nelle canzoni dei Beatles e del rock psichedelico.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un capitolo:

Standing on a beach

Non ricordo esattamente com’è andata. Doveva essere la sera-notte di un’estate di metà anni zero e me ne stavo lì al bancone di uno di quei lidi mentre al centro della pista sulla sabbia c’era della gente che ballava la musica di un dj che suonava canzoni commerciali, hit estive che rimbombavano fino alle onde. A un certo punto parte un pezzo a tutto basso, con le tastierone in bella evidenza e condito da effetti dissonanti; e be’, quando attacca la parte vocale non ci ho messo più di mezzo secondo per riconoscere la voce di Robert Smith. Metà anni zero significa niente smartphone e quindi niente Shazam e annessi e connessi, così passai il resto della notte a chiedermi se fossi stato vittima di un’allucinazione[1].

Il fatto è che avevo passato un’estate precedente in preda alla malinconia disperante di dischi come bloodflowers,e in generale ben conoscevo il romanticismo oscuro tipico della poetica di Robert Smith. seventeen second, disintegration, the head on the door, pornography, ma anche i dischi più pop come wish. E ora mi ritrovavo a muovere la testa e le gambe al tempo di un pezzo con i tastieroni e il superbasso pulsante cantato da quella medesima voce e insomma la cosa mi sembrò, sì, fuori luogo, strana, poco comprensibile, insomma, assurda. Per vederci chiaro, tempo dopo scoprii che era proprio Robert Smith quello che aveva prestato la voce per Da Hype[2], il singolo di un produttore di nome Junior Jack. O meglio di Vito Lucente, così all’anagrafe, nativo di Rutigliano, provincia di Bari, ma residente in Belgio, con all’attivo pezzi eurodance o house con influenze latine[3].

Qualche anno più tardi ero al cinema per vedere This Must Be The Place, il nuovo film di Paolo Sorrentino. Per il personaggio di Cheyenne, un cantante dark molto famoso negli anni Ottanta ma ormai fuori dalle scene, il regista aveva raccontato di essersi ispirato a Robert Smith. E in effetti per look – capelli neri folti e intricatissimi sulla testa, il trucco agli occhi e sul volto, il rossetto alle labbra – e attitudine, la somiglianza tra i due è evidente. Il motore della sceneggiatura si innesta quando il padre della rockstar muore, e dopo i funerali Cheyenne/Sean Penn decide di andare a caccia del criminale nazista che lo aveva torturato in un campo di prigionia. Verso la fine del viaggio riesce a scovarlo, grazie alle informazioni che gli dà un uomo anziano conosciuto in una tavola calda; il quale, oltretutto, gli confessa di essere l’inventore delle valigie a trolley, l’inseparabile bagaglio che Cheyenne trascina dietro di sé per tutto il film.

Ho citato queste due storie con Robert Smith in qualche modo protagonista per dar conto di un concetto che chiama in causa l’incredulità, la stranezza; in questo caso gli spunti sono senz’altro frivoli (si riferiscono alla trama decisamente ardita di un film e alla sorpresa di ritrovare la voce di Smith – lo stesso di A Strange Day e Fascination Street e via discorrendo – in un pezzo piuttosto tamarro firmato da un dj originario di Rutigliano), ma insomma basta fare un attimo caso a quello che ci  capita o che veniamo a sapere ogni giorno per scoprire che la faccenda è seria. La verità è che probabilmente, dato che siamo assediati da bisogni/doveri quotidiani che sottraggono parecchio tempo alle nostre esistenze, non dedichiamo troppo tempo a riflettere su quanto – in opposizione a una routine che appare consolidata e governata da principi poco sindacabili – le nostre vite siano pervase da circostanze assurde; ovvero, secondo la definizione del dizionario Treccani, da quello «che è contrario alla ragione, all’evidenza, al buon senso; che è in sé stesso una contraddizione; anche di cose o fatti reali, ma quasi incredibili per la loro stranezza o eccezionalità». Ed è buffo, ma uno che ha avuto modo di farlo – di riflettere sull’assurdo, s’intende – è proprio quella certa rockstar dark che ha ispirato il Cheyenne di Paolo Sorrentino. In fondo, chi meglio di lui, con tutto quel make-up addosso? A questo proposito, ecco il Robert Smith-pensiero in un’intervista al magazine Q, nei giorni della promozione di disintegration:

Sono molto consapevole dell’eredità dell’assurdo. Ho ancora la sensazione che tutto sia veramente stupido. È una linea di pensiero che continua a stimolarmi. Suonare in una band è assurdo… tutto questo auto-ingrandirsi.

Ora, Robert non è il solo ragazzotto che si sia perso in questi ragionamenti sull’assurdo. Nel dizionario filosofico, per dire, c’è tutta una voce sull’argomento, che parte da lontanissimo. Le fonti del cantante dei Cure, però, attengono di più alla sfera della narrativa, e sono sfociate direttamente in diversi pezzi della band. I due novecenteschi eroi dell’assurdo  sono senza dubbio Franz Kafka e Albert Camus, e a loro arrivò Robert Smith. Se i racconti di Franz Kafka mostrano l’assurdo in una chiave spietata, tanto comica quanto tragica, con un’efficacia immediata, quasi istintiva, Albert Camus si è avventurato sullo stesso terreno seguendo una traccia più concettuale e filosoficamente speculativa, affrontando la questione perlomeno nel romanzo breve Lo straniero e nel saggio Il mito di Sisifo.

Lo straniero[4] racconta in prima persona la vicenda di Meursault, un impiegato francese che vive in una Algeri assolata e non priva di fascino, dove insomma le cose succedono, anche se nella lentezza sfumata dalla calura. Per far capire al lettore che nella testa di Meursault qualcosa non va per il verso giusto[5], a Camus basta la prima riga del libro: «Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so». In seguito, le stranezze del comportamento di Meursault vengono reiterate; quello che sconcerta chi legge, però, è la lucidità assoluta che utilizza l’impiegato per infilare una sequenza di azioni prive di senso logico, che non mancheranno di portarlo alla rovina. Ecco dunque che rifiuta con un fermo «No», senza un chiaro motivo, di vedere un’ultima volta il corpo della madre; piuttosto, chiacchiera amabilmente con il portinaio dell’ospizio che ospita la bara. Più avanti, nella relazione con una collega, Maria, esibisce freddezza e assenza di coinvolgimento emotivo. La prima parte del romanzo termina con Meursault che sulla spiaggia ammazza un arabo, senza ragione alcuna se non una banale e inutile lite.

Dal mare è rimontato un soffio denso e bruciante. Mi è parso che il cielo si aprisse in tutta la sua larghezza per lasciar piovere fuoco. Tutta la mia persona si è tesa e ho contratto la mano sulla rivoltella. Il grilletto ha ceduto, ho toccato il ventre liscio dell’impugnatura ed è là, in quel rumore secco e insieme assordante, che tutto è cominciato. Ho capito che avevo distrutto l’equilibrio del giorno, lo straordinario silenzio di una spiaggia dove ero stato felice. Allora ho sparato quattro volte su un corpo inerte dove i proiettili si insaccavano senza lasciare traccia. E furono come quattro colpi secchi che battevo sulla porta della sventura[6].

Nella seconda parte del romanzo, Meursault, in cella, piomba in riflessioni sempre più incomprensibili, esposte ancora con esemplare fermezza davanti a giudici e avvocati, rinunciando di fatto a difendersi.

Robert Smith passò infanzia e adolescenza a Crawley, cinquanta chilometri a sud di Londra, ben lontano dalle spiagge assolate di Algeri. A scuola faceva il minimo indispensabile – «se sei abbastanza furbo puoi convincere gli insegnanti che sei speciale; per tre anni non ho fatto praticamente nulla», disse – ma storie e racconti non lo lasciavano indifferente. Da bambino il padre gli leggeva la serie delle Cronache di Narnia di C.S. Lewis, un classico per i ragazzini inglesi: «Adoravo fuggire in quei racconti, era il momento più rassicurante della mia giornata; stavo scoprendo l’incredibile potere della letteratura, quello dell’evasione e della consolazione». Più avanti, durante l’adolescenza, scoprì la narrativa di Franz Kafka e Albert Camus. Due scrittori potenti, quel genere di autori che stanno con tutta la loro opera in un club particolare, il club di chi dimostra quanto la letteratura possa schiudere nuovi orizzonti, formare una coscienza, una linea di pensiero.

https://www.youtube.com/watch?v=yAt4OBZ4uHw

Nel caso di Robert Smith, prendiamo Camus. Be’, a voler usare un’iperbole, diciamo che Camus fu il primo singolo dei Cure: Killing an arab è la personale versione dello Straniero secondo Robert Smith. Il pezzo uscì nel dicembre 1978, quando Smith non aveva ancora vent’anni. «Uno dei temi della canzone è che l’esistenza di tutti è praticamente la stessa. Tutti vivono, tutti muoiono, le nostre esistenze sono le stesse», raccontò dopo, spiegando di averla scritta quando frequentava l’ultimo anno di scuola. Era colpito dalle azioni da Meursault;  da come potesse sentirsi – con estrema naturalezza – capitato per caso al funerale della madre. La scena raccontata nel testo della canzone, però, è quella centrale: l’omicidio dell’arabo in spiaggia.

Standing on the beach

With a gun in my hand

Staring at the sea

Staring at the sand

Staring down the barrel

At the Arab on the ground

I can see his open mouth

But I hear no sound 

I’m alive

I’m dead

I’m the stranger

Killing an Arab[7]

Non so come si chiamasse l’insegnante di lettere di Robert Smith, ma fossi in lui sarei stato fiero del mio allievo. La struttura musicale della canzone, poi, ricalca sia la tensione emotiva che l’esotismo del testo, con un motivo assieme allucinato e arabeggiante. E va avanti:

I can turn

And walk away

Or I can fire the gun

Staring at the sky

Staring at the sun

Whichever I chose

It amounts to the same

Absolutely nothing[8]

È qui, in quell’absoultely nothing, che Robert Smith coglie il cuore della questione, il punto dove il nichilismo piomba sul terreno preparato dall’assurdo.

Siccome siamo in un territorio minato, però, le cose inevitabilmente si complicano. Ascoltando quella canzone intitolata Killing an Arab, un sacco di gente – poco avvezza ai temi dell’esistenzialismo e a corto di Albert Camus – pensò che significasse semplicemente Uccidere Un Arabo. L’equivoco è montato sia nel pentolone delle controculture inglesi anni Ottanta, con fazioni di skinhead che distorsero il senso della canzone, sia in altri gruppi di ascoltatori, tanto che all’uscita negli Stati Uniti la casa discografica cedette alle pressioni e piazzò sull’album un adesivo che avvertiva come Killing an Arab non fosse un manifesto razzista. Ma l’incomprensione è riemersa a ogni conflitto Occidente vs Mondo arabo, dalla guerra del Golfo nel 1991 agli attentati dell’undici settembre 2001. Robert Smith l’ha messa giù così, sintetizzando al meglio tutta la faccenda:

Il tema dell’assurdo mi ha sempre affascinato, e ironicamente si è riversato su tutte quelle idiozie che sono state dette su questa canzone. Non abbiamo mai voluto giustificarci e continuiamo a farlo adesso con la guerra in Iraq o con il conflitto mediorientale. Nel Regno Unito, all’inizio, cantavo «Killing an Englishman”, ma la stampa non capiva. Negli Stati Uniti, durante la guerra del Golfo, cantavo «Killing an American»: la stampa americana ci ha massacrato. Se lo avessi saputo prima avrei chiamato la canzone Standing on the Beach, ci avrebbe risparmiato molti guai.

Assurdo per assurdo, Robert Smith ha iniziato a divertirsi cambiando di volta in volta l’oggetto dell’omicidio. Nei concerti degli anni Zero cantava Killing Another, e certe volte addirittura Killing Ahab, balzando da Camus a Herman Melville e Moby Dick. Altre volte la metamorfosi ha riguardato toccato il verbo, e così Killing è diventato Kissing[9].

[1] Né me la sentii di chiedere lumi al dj, o forse non ci pensai.

[2] !

[3] Come E Samba, con in copertina, in bella vista, «il culo di una delle mie fidanzate», come ammette Lucente. In un’intervista il produttore racconta di aver corteggiato per parecchio tempo Smith, di cui si dice fan dall’età di sedici anni, fino a quando il leader dei Cure accettò la collaborazione per Da Hype.

[4]L’Étranger, uscito nel 1942 per Gallimard, pubblicato in Italia da Bompiani, che ne curò la prima traduzione nel 1947.

[5] O almeno nel verso che il senso comune ritiene essere quello giusto.

[6]Lo straniero, Albert Camus, traduzione di Alberto Zevi, Bompiani 2011.

[7] «In piedi sulla spiaggia /Con una pistola in pugno / Fissando il mare / Fissando la sabbia / Puntando la pistola / All’arabo sdraiato / Posso vedere la sua bocca aprirsi / Ma non sento alcun suono / Sono vivo / Sono morto / Sono lo straniero / Uccidere un arabo».

[8] «Potrei girarmi / E andar via / O fare fuoco con la pistola / Fissando il cielo / Fissando il sole / Qualunque sia la mia scelta / Fa lo stesso / Assolutamente niente».

[9] Bah. Questo sì che è assurdo.

Fotografia header: Robert Smith, leader dei Cure

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