“La vera scienza sospetta sempre che dietro ogni sua scoperta giaccia qualcosa di più profondo, oscuro, strano. La sua più grande virtù è l’infatuazione per il mistero”: nel libro “Quando abbiamo smesso di capire il mondo” il romanziere cileno Benjamín Labat, attraverso un sorprendente intrico di racconti, ricostruisce la nascita della scienza moderna. Per l’autore, in tempi di pandemia a essa non dobbiamo chiedere certezze assolute, “ma una continua e disperata ricerca della verità”

Nell’ultimo anno si è inevitabilmente parlato moltissimo di scienza. Le materie scientifiche (dalla fisica alla matematica, passando per la medicina e la psicologia) sono state protagoniste anche sugli scaffali delle librerie.

Adelphi ha appena proposto un libro che parla di scienza in un modo davvero particolare: Quando abbiamo smesso di capire il mondo (traduzione di Lisa Topi). A firmare il volume, in cui l’autore, attraverso un sorprendente intrico di racconti, ricostruisce alcune scene che hanno deciso la nascita della scienza moderna, è un romanziere cileno, Benjamín Labatut.

Lo scrittore ha spiegato alla Lettura: “La scienza non offre verità ma un metodo, pieno di incertezze: una domanda scottante mai del tutto risolta. La vera scienza sospetta sempre che dietro ogni sua scoperta giaccia qualcosa di più profondo, oscuro, strano. La sua più grande virtù è l’infatuazione per il mistero, un desiderio di sapere perseguito con lo stesso fervore con cui i santi desideravano il contatto con il Verbo”. E ha proseguito: “Mi interessa l’oscuro ventre della scienza, i difetti nella logica dell’universo, le scoperte clic rompono la nostra immagine della realtà o l’espandono fino all’inimmaginabile, perché anche la scienza, se vista da una certa prospettiva, è una forma particolare di follia: la follia di pensare che possiamo capire il mondo”.

Benjamín Labatut Quando abbiamo smesso di capire il mondo

Ecco cosa l’ha spinto a raccontare le storie contenute in Quando abbiamo smesso di capire il mondo, in cui trovano spazio figure come Fritz Haber, Werner Heisenberg, passando per Ervin Schrödinger e Alexander Grothendieck.

Per il 40enne Benjamín Labatut “non abbiamo mai veramente capito il mondo, però abbiamo capito le storie che ce ne siamo detti l’un l’altro, I fatti grezzi dell’esperienza hanno senso solo se puoi metterli insieme in una narrazione. E oggi, con il cambiamento incessante e l’interconnessione illunitata, l’unica capacità fondamentale dell’umanità, cioè la capacità narrativa (dono che certo viene dagli dèi) ci sta venendo meno. Non possiamo mettere il mondo in parole, non sappiamo dare un senso al vortice turbolento della realtà”.

Ma quali sono i fili che lo scrittore segue nel libro? Lo ha raccontato l’autore al Messaggero: “Gli enigmi della meccanica quantistica, le camere a gas dei campi di sterminio nazisti, le terribili astrazioni della matematica, il cuore di un buco nero, il silenzio sussurrante di Dio… (…) Sono sentieri che portano a questi luoghi di meraviglia e disperazione che fanno parte della storia dell’umanità”.

Gli è stato inevitabilmente chiesto della pandemia e del ruolo della scienza in questi mesi difficilissimi per il mondo intero. Per l’autore, a essa dobbiamo solo chiedere “ciò che chiediamo a noi stessi: nessuna certezza assoluta, ma una continua e disperata ricerca della verità“.

Abbiamo parlato di...