Dario Bressanini è uno dei più conosciuti divulgatori italiani, ed è anche un saggista di successo, professore e ricercatore di chimica: “Mi considero un chimico prestato alla scrittura: adoro insegnare, mi dà una grande soddisfazione, anche se posso raggiungere una quantità esigua di persone rispetto a tutti gli altri mezzi”. Il titolo del suo nuovo libro, “Fa bene o fa male?”, si rifà alla domanda che racchiude gran parte dei dubbi sull’alimentazione che i consumatori si pongono di fronte agli scaffali del supermercato: “Nel libro illustro quali sono i meccanismi della comunità scientifica: correzioni, autocorrezioni, sperimentazioni, discussioni, proprio per mostrare il perché possiamo fidarci”. Intervistato da ilLibraio.it, l’autore riflette sui temi principali del libro e sul suo lavoro di divulgazione: “L’elemento fondamentale è il tempo: sembra banale ma è importante, la complessità si spiega con un po’ di tempo a disposizione…”

Dario Bressanini è uno dei più conosciuti divulgatori italiani, e con Fa bene o fa male? (Mondadori, disegni di Arianna Operamolla) è giunto alla sua nona pubblicazione. Saggista di successo, professore e ricercatore di chimica all’Università dell’Insubria, Bressanini è protagonista anche in rete, e i suoi contenuti divulgativi si possono trovare su molte piattaforme, da YouTube a Instagram, da Twitter a Tiktok, sulle quali adatta le spiegazioni in base al pubblico che lo segue.

Il titolo del suo nuovo libro si rifà alla domanda che racchiude gran parte dei dubbi sull’alimentazione che i consumatori si pongono di fronte agli scaffali del supermercato, ma non si tratta di una guida a cosa mettere nel carrello e cosa evitare. Bressanini, infatti, nell’indagare i dati e le evidenze scientifiche relative ad alcuni prodotti di cui si sente spesso parlare in modo scorretto, come per esempio il cioccolato, i salumi, l’acqua o gli zuccheri, offre degli strumenti con cui trovare risposte in modo autonomo tutte le volte che si è insicuri riguardo ai benefici o alla pericolosità di un prodotto.

In occasione dell’uscita di Fa bene o fa male?, ilLibraio.it ha raggiunto l’autore telefonicamente per parlare del suo lavoro di divulgazione e dei temi principali che emergono nel saggio:

copertina del libro fa bene o fa male di dario bressanini

Professore, divulgatore, scrittore: le sue professioni riguardano in modi differenti la spiegazione della scienza. Qual è il suo canale di comunicazione preferito?
“In realtà mi considero un chimico prestato alla scrittura: adoro insegnare, mi dà una grande soddisfazione, anche se posso raggiungere una quantità esigua di persone rispetto a tutti gli altri mezzi. Rispetto ai canali digitali, invece, trovo più stimolanti quelli popolati dai più giovani, come TikTok, YouTube e Instagram”.

Come ha iniziato a occuparsi di divulgazione?
“È stato un percorso graduale, arrivato anche un po’ per caso. Quando ho iniziato a insegnare chimica percepivo la difficoltà nel far capire ai miei studenti come gli argomenti trattati riguardassero la vita reale, allora ho iniziato a fare esempi che sfruttassero l’esperienza della vita quotidiana, come la cottura dei cibi, portando di fatto un po’ di divulgazione nella didattica. Poi per un caso fortuito ho iniziato a scrivere su Le Scienze: non potendo presumere il background e gli interessi di chi mi leggeva ho fatto il contrario, sfruttando gli esempi della cucina per spiegare come funziona la scienza”.

Ci sono dei divulgatori a cui si è ispirato?
“Quando ero studente ero un grande appassionato dei programmi televisivi e dei libri di divulgazione, e ho iniziato a leggere Le Scienze molto prima di arrivare a scriverci. Ma essendo stato tra i primi a fare divulgazione sul web, non c’era un vero e proprio modello che potessi seguire. Posso dire di essermi ispirato a Piero Angela nello spirito, e cioè nella scelta di utilizzare un linguaggio semplice e nel voler raggiungere un pubblico più ampio possibile”.

Lei si occupa di scienza a tutto tondo, ma l’argomento che tratta maggiormente è la chimica degli alimenti. Come mai?
“Quando ho iniziato a scrivere articoli, la rubrica ha preso il nome di Pentole e provette (il blog invece quello di La scienza in cucina), perché trattavo argomenti gastronomici come potevano essere la termodinamica della pizza o la chimica del pesto. Poi, nel corso degli anni ho ampliato molto la prospettiva, occupandomi per esempio di biotecnologie e OGM. Il cibo, quindi, rappresenta una macrocategoria molto vasta, che mi permette di spaziare dagli aspetti più ludici alla disinformazione, trattando nozioni poi facilmente trasferibili anche in altri campi”.

Lei si trova spesso a spiegare come mai alcune convinzioni diffuse siano in realtà scorrette. La natura del web, però, moltiplica il numero e la capacità di diffusione di queste false credenze: non ha mai l’impressione che si tratti di un lavoro infinito?
“Me lo sono chiesto in passato, e in particolare due anni fa quando ci trovavamo nel momento di grande disinformazione e confusione informativa relativo alla pandemia. Da cittadini siamo stati bombardati da informazioni contrastanti, e mi chiedevo se fare divulgazione non fosse un po’ voler svuotare il mare con un secchiello. Poi ho capito che in realtà quello che volevo fare era ‘riempire i secchielli’, e cioè dare a chi mi segue strumenti culturali per porsi le domande giuste ed essere scettici con cognizione di causa. In fondo è l’argomento centrale di questo libro, e cioè il modo in cui dovremmo approcciare le informazioni”.

Il titolo, Fa bene o fa male?, si riferisce a un dubbio che ci si pone spesso, soprattutto in campo alimentare. Ma in realtà nel libro lei spiega che il problema si trova nel modo in cui è posta la domanda.
“Sì, anche se comprendo benissimo l’esigenza da cui sorge. Però la risposta che si può trovare è quasi sempre sbagliata, e nel libro lo mostro con degli esempi pratici. È vero che durante il giorno navighiamo attraverso una marea di informazioni contrastanti, ma bisogna investire del tempo per approfondire l’argomento. Viviamo con l’idea che le informazioni siano gratuite, perché pensiamo basti andare su Google per trovarle, ma in realtà quello che ‘costa’ è il tempo da utilizzare per andare alla ricerca di informazioni di qualità”.

Nel libro lei infatti mostra la mancanza di evidenze scientifiche (o la presenza di evidenze contrarie) rispetto ai benefici nell’utilizzo di sostanze come il sale rosa dell’Himalaya, la clorofilla o l’acqua alcalina. Quello che però comunica è che nella scienza si ragiona per probabilità e senza risposte nette. Come si divulga la complessità?
“Anche in questo caso l’elemento fondamentale è il tempo: sembra banale ma è importante, la complessità si spiega con un po’ di tempo a disposizione. Poi bisogna mettersi nell’ottica che nessuno può obbligare chi mi segue o legge i miei libri ad ascoltarmi fino alla fine o a concludere il libro: per interessare ho sviluppato il mio metodo, che non è detto sia valido per tutti”.

Quale sarebbe?
“Evito di fare discorsi astratti: parto sempre da un esempio reale e lo disseziono, così chi mi legge può capire subito se è un argomento che gli interessa o meno. Poi sviscero la storia di quella sostanza in senso cronologico, oppure conduco il lettore alla ricerca delle fonti e delle pubblicazioni scientifiche, andando a spiegare ogni elemento nuovo. Nel caso di questo libro per esempio ci sono dei box in cui si trovano delle panoramiche dei diversi tipi di studi scientifici”.

A un certo punto scrive che “una volta l’ignorante era la persona che non aveva informazioni, ora è colui che non riesce a distinguere le informazioni vere da quelle false”. Sui social però non c’è un filtro o una gerarchia delle informazioni: da divulgatore come si convive con questo aspetto?
“Il problema non sono i social in sé, ma il fatto che negli ultimi anni è venuto a mancare il ruolo di intermediazione del giornalismo scientifico, che si dovrebbe occupare di tradurre e contestualizzare studi e informazioni per porle nell’ottica corretta al lettore. La divulgazione ha lasciato i grandi canali di informazione come la carta o la televisione, a parte qualche rara eccezione, e questo ha portato a dei danni che si sono resi ancora più evidenti durante la pandemia”.

Per esempio?
“Nelle trasmissioni televisive venivano invitati specialisti a cui spesso si ponevano domande scorrette: a un virologo magari venivano fatte domande di immunologia ed epidemiologia, e così senza intermediazione gli esperti – alcuni bene, e alcuni male – esprimevano la loro opinione. Per questo negli ultimi dieci anni molti divulgatori hanno scelto di usare i social come una sorta di televisione personale, e il successo a livello globale della divulgazione ci mostra che non è vero che le persone cercano solo i balletti: c’è una richiesta di contenuti che sono anche lunghi e difficili, e i social sono un ottimo strumento per raggiungere chi ne è interessato”.

Nel suo libro lei racconta anche l’esistenza di una certa parte della ricerca scientifica costituita da articoli che non rispecchiano i criteri di pubblicazione e di riviste poco affidabili. Viviamo in un momento storico in cui la disinformazione va di pari passo con un calo nella fiducia verso gli scienziati: che strumenti ha chi non è del settore per fare una distinzione?  
“Quello che cerco di far capire è che non bisogna avere fiducia nel singolo scienziato, ma nella scienza come metodo. Anche alcuni premi Nobel quando sono usciti dal loro seminato hanno detto cose senza senso. In Fa bene o fa male? illustro quali sono i meccanismi della comunità scientifica: correzioni, autocorrezioni, sperimentazioni, discussioni, proprio per mostrare il perché possiamo fidarci. Uno studio scorretto può capitare, ma non possiamo accelerare i processi di verifica, che spesso richiedono anni. Ciò si scontra con il nostro bisogno di ottenere risposte velocemente”.

La chiave quindi rimane il tempo. 
“Sì: l’ignoranza non è una colpa, ma dove reperisco le informazioni, e il tempo che decido di dedicare alla ricerca di informazioni affidabili, è una mia responsabilità. Le informazioni ci sono, ma servono il tempo e la voglia di andarle a cercare; il rischio che si corre, altrimenti, è di finire preda di false soluzioni, che nel migliore dei casi ci convincono a spendere un sacco di soldi in prodotti che in realtà non servono. Ma il mio non è un giudizio di superiorità, il bisogno di controllo è umano, ed è più forte quando si è preoccupati”.

Capita anche a lei?
“Sì e ho cercato di farlo trasparire nel libro: neanche io ne sono al riparo, soprattutto quando si tratta di cose che mi toccano profondamente, come la mia diagnosi di tumore. Per toccare un argomento del libro, capisco per esempio chi si chiede se vada bene usare l’acqua del rubinetto per fare un biberon al proprio bambino desiderando una risposta netta, perché la preoccupazione del momento rende difficile ragionare razionalmente”.

Abbiamo parlato del Bressanini scrittore, ma a lei cosa piace leggere?
“Leggo moltissimi fumetti! Pochi romanzi, e quando mi capita difficilmente sono novità: l’ultimo che è ho letto è stato il Ciclo della fondazione di Asimov che mi ha regalato mio figlio lo scorso anno. Quando vado in libreria mi attirano soprattutto gli scaffali di saggi, manualistica e varia, anche se non necessariamente a tema scientifico. Mi rendo conto che i saggi non sono l’unico modo per imparare, ma mi piace arrivare alla fine di un libro e avere la sensazione di sapere qualcosa di più sul mondo”.

Scopri le nostre Newsletter

Iscrizione alla Newsletter
Il mondo della lettura a portata di mail

Notizie, approfondimenti e curiosità su libri, autori ed editori, selezionate dalla redazione de ilLibraio.it

scegli la tua newsletter Scegli la tua newsletter gratuita

Fotografia header: Foto di Claudio Sforza

Abbiamo parlato di...