Nella danza, come nel body building, esiste un canone di perfezione per i corpi. Ne parla Francesca Marzia Esposito nel saggio narrativo “Ultracorpi – La ricerca utopica di una nuova perfezione” – Su ilLibraio.it un estratto

Dopo romanzi come La forma minima della felicità (Baldini & Castoldi, 2015) e Corpi di ballo (Mondadori, 2019) e dei racconti su riviste, Francesca Marzia Esposito torna in libreria con Ultracorpi – La ricerca utopica di una nuova perfezione (minimum fax), un saggio narrativo che esplora due canoni opposti ma complementari: quello dello sviluppo estremo della massa corporea nel body building, e quello della sottigliezza perseguito nel mondo della danza. Mondo che l’autrice, che insegna danza, conosce bene.

Esposito, che si è laureata al Dams di Bologna e ha conseguito un master in Scrittura per il cinema all’Università Cattolica di Milano, nel nuovo libro sottolinea come, nella danza come nel body building, esiste un canone di perfezione per i corpi; corpi che, se lasciati a loro stessi, si accartocciano e si imbruttiscono, mentre il lavoro può e deve modificare il corso naturale degli eventi, in una simulazione – ancorché illusoria – di permanenza, quando non di immortalità. Per l’autrice si tratta, in realtà, di ricerche esasperate, per difetto e per eccesso, che spesso si innestano su un disagio del quale anoressia e vigoressia sono sintomi contrari e complementari.

Spaziando tra matrice autobiografica, riflessione teorica e micronarrazioni esemplari, Francesca Marzia Esposito tenta di costruire una mappa dell’immaginario contemporaneo legato al corpo e alle sue trasformazioni, appoggiandosi a vicende insieme popolari ed esemplari. Il risultato? Un’indagine sui corpi “modificati artificialmente”, corpi che stanno davanti allo specchio e decidono di affrontare una trasformazione tanto più astratta e irreale quanto più dettagliata e anatomicamente perfetta.

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Ultracorpi. La ricerca utopica di una nuova perfezione di Francesca Marzia Esposito

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

(…) Il body building, come ho già detto, ha in matrice una dimensione artistico-performativa più vicina alla danza, alla scultura, alla body art. Esiste di sicuro qualcosa in questa disciplina che trascende l’azione. Una componente zen che ha a che fare con la stasi contemplativa. Qualcosa che dalla superficie affonda in uno stadio niente affatto superficiale. Quello che i puristi della sportività ostracizzano è la dimensione del corpo plateale del bb, del corpo che cerca di attrarre l’attenzione non per la sua forza reale, ma per il rimando potenziale che quella forma suggerisce. Una forma svuotata del suo contenuto, cava, quindi inutile. Così facendo non si tiene conto del fatto che la mancata patente sportiva andrebbe estesa a tutti i normo che se ne vanno in palestra a farsi il fisico. Il fitness fa esattamente questo: applica il culto del corpo a un livello amatoriale. Attraverso un abbonamento annuale o mensile, si frequentano corsi di gag, body work, spinnig, step, aerobica, sala pesi, con l’idea di rimettersi in forma, di modellare il culo piatto e trasformare la trippa in addominali. La meta è migliorare, avere un corpo più sano. Dove la parola sano deve rimare necessariamente con bello. Così starò meglio, camperò di più, sarò più appetibile, e quindi sarò più: felice? Il fitness è una sottocategoria che nasce da un bisogno estetico travestito da sogno etico. Il che ci fa muovere pericolosamente nella zona rossa dei corpi corretti e giusti e di quelli deviati da correggere, riportandoci di nuovo nell’oscurantismo medievale di cui sopra.

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Il binomio di un corpo bello e sano, benché venga veicolato con un’accezione positiva, in realtà cela, nemmeno troppo velatamente, l’idea di supremazia del corpo eccelso, forte, lucido, in maggiore, che sta all’opposto di quella body positivity con cui ci piace tanto intercalare i discorsi. Estetico: bello, armonico, tonico e senza grasso. Etico: capace di discernere tra bene e male, di muoversi per il proprio bene. Qual è esattamente il proprio bene? A costo di sembrare un disco rotto, il discrimine sul valore di ciò che debba essere definito tale è suscettibile di variazioni a seconda della storia personale, dei sogni e dei principi cardine su cui ognuno di noi fonda la propria esistenza.

Forse non è un nome che suonerà familiare, ma Jack LaLanne ebbe successo anche come body builder. C’è una stella a suo nome sulla Hollywood Walk of Fame. LaLanne è considerato il guru americano del fitness e del mangiare sano. Ha letteralmente riprogrammato l’idea di corpo atletico americano virile e vincente, che poi ci ha capillarmente contaminati. Prima che arrivasse Jane Fonda con la fascetta di spugna sulle tempie e gli scaldamuscoli fucsia, fu LaLanne a darci dentro con l’idea del mangiare sano e del fare movimento. Aveva 22 anni nel 1936, quando aprì le prime palestre di fitness in California. Negli anni Cinquanta si rivolgeva in tv alle donne per spronarle al nuovo credo corpo e alimentazione. È stato il pioniere dell’allenamento con i pesi al femminile. Motivava gli anziani e i disabili a non abbandonare mai l’attività fisica. Gli anni Cinquanta e la nuova attenzione al corpo, in correlazione con la grande crescita demografica del momento, hanno gettato le basi del fitness moderno.

Insomma, tutto quello che ora rientra nel nostro stile di vita salubre, nel tentativo di coltivare un’esistenza migliore, moralmente e fisicamente ineccepibile, tutta la dieta e l’allenamento che poi si è definitivamente cristallizzato con il lavoro aerobico e anaerobico condotto in palestra, discende da LaLanne. Questo per dire quanto ogni nostra scelta, ogni pensiero che sviluppiamo, ogni singola opinione che pensiamo sia nostra e personale, in realtà non è altro che la gemmazione di un ciclo evolutivo dentro cui siamo incastrati. Così la nostra condizione di fare sport per tenersi in forma non è che una derivazione accomodante del concetto di body building, cui è accomunato fondamentalmente dallo stesso fine: costruire un corpo bello. Solo che il fitness non ha uno scopo agonistico, e quindi il miglioramento è teso a una condizione psicofisica di salute.

L’obiezione successiva potrebbe essere: lo sport viene di per sé definito non solo dalla sua capacità di compiere un’azione elettiva, ma anche dal mantenere il corpo in uno stato di benessere, di risvolto positivo, mentre il culturismo, svuotando l’azione e deformando il mezzo, non solo vanifica l’abilità tecnica ma si ripiega nella dedizione a una disciplina fondamentalmente malsana. Ma lo sport sano, se è un concetto che può funzionare a livello amatoriale, quando si entra nel mondo professionale risulta un’utopia, e lo abbiamo ribadito più volte…

(continua in libreria…)

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