Nel suo nuovo saggio, “Virus sovrano?”, la filosofa Donatella Di Cesare mostra come covid-19 ha messo allo scoperto la spietatezza del capitalismo – Su ilLibraio.it il capitolo “L’asfissia capitalistica”

Donatella Di Cesare, docente di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, è tra le voci più significative dello scenario intellettuale. Firma di numerose testate, siti e riviste, ha pubblicato saggi come Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione (2017, Premio Pozzale per la saggistica 2018; Premio Sila per economia e società 2018) e Sulla vocazione politica della filosofia (2018, Premio Mimesis Filosofia 2019), usciti per Bollati Boringhieri.

Donatella Di Cesare

La casa editrice torinese pubblica ora, prima in ebook e dal 4 giugno anche in edizione cartacea per le librerie, Virus sovrano?, volume che presenta un quadro suggestivo dell’evento epocale che ha già segnato il ventunesimo secolo.

Il saggio, inoltre, sarà in edicola per un mese, allegato a Repubblica e L’Espresso, a partire dal 20 maggio

Dalla questione ecologica al governo degli esperti, dallo stato d’eccezione alla democrazia immunitaria, dal dominio della paura al contagio del complotto, dalla distanza imposta al controllo digitale: come sta già cambiando l’esistenza nei mesi segnati dell’emergenza covid-19, quali potranno essere gli effetti politici nel futuro.

virus sovrano
Per la filosofa il coronavirus è un virus sovrano che aggira i muri patriottici, le boriose frontiere dei sovranisti. E rivela in tutta la sua terribile crudezza la logica immunitaria che esclude i più deboli. La disparità tra protetti e indifesi, che sfida ogni idea di giustizia, non è mai stata così sfrontata. Il virus ha messo allo scoperto la spietatezza del capitalismo e mostra l’impossibilità di salvarsi, se non con l’aiuto reciproco, costringendo a pensare un nuovo modo di coabitare.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un capitolo

L’asfissia capitalistica

Doveva giungere un virus maligno per imporre una pausa. Impossibile non pensare da subito a questo paradosso bizzarro e tragico: riprendiamo fiato, respiriamo un po’, ma solo per il pericolo imminente, perché il covid19, il virus dell’asfissia, minaccia di toglierci il respiro. Non si sa più che cosa significhi «riposo», quella «pausa» intensa, per noi troppo contigua al sopore del sonno, o addirittura al sonno eterno della morte. Si dice infatti «riposi in pace». Forse anche per quella contiguità il riposo provoca angoscia. Il virus ci ricorda anche questo.

D’un tratto il respiro assume un valore inedito. Si parla ovunque di respirazione e di ossigeno. Mentre l’aria delle città si fa meno inquinata, nelle terapie intensive degli ospedali medici e infermieri lottano ogni giorno per evitare l’asfissia mortale e irreparabile. Dopo tutto quel che accaduto, il respiro non dovrebbe più essere un’ovvietà. Il virus rallentista ha avuto la meglio sull’accelerazione. Temporaneamente – si spera.

L’interruzione che ha provocato non ha i colori della festa, ma i tratti lugubri e tetri di un epilogo. Eppure, in questa sosta forzata, viene alla luce l’aberrazione della frenesia di ieri – la smania, l’iperattività, il fiato corto.

L’asfissia temporale è il male oscuro di questi anni. Inadeguatezza, ansia, panico pervadono l’esistenza condannata al timore dell’attimo successivo che, mentre incombe, è già dileguato. Non solo non riusciamo a fermarci. Di più: non riusciamo a soffermarci nel tempo, dove non troviamo più dimora. Tutti gli istanti sono ormai inabitabili. Il tempo sembra già consumato prima ancora che venga concesso. Siamo su scale mobili che scendono sempre più rapidamente. Corriamo in salita per eludere l’abisso. A poco servono le fughe estemporanee e fittizie, le rivolte private o i piccoli boicottaggi, spesso pagati a caro prezzo. Le oasi di decelerazione, le strategie di rallentamento sono solo un palliativo momentaneo.

Nessuno si sottrae alla vorticosa economia del tempo nell’era del capitalismo avanzato. Apparentemente siamo liberi e sovrani. Ma a ben guardare l’imperativo della crescita, l’obbligo della produzione, l’ossessione del rendimento fanno sì che subdolamente libertà e costrizione finiscano per coincidere. Viviamo in una libertà costrittiva o in una libera costrizione. Non potremmo altrimenti reggere la sfida quotidiana che ci lascia esausti, senza fiato.

Se la sera avvertiamo un vago senso di colpa, non è certo per le leggi etiche aggirate, né per i comandamenti religiosi elusi, bensì per non aver tenuto il passo, per non aver assecondato il battito convulso del mondo lanciato ad alta velocità. La rapidità precipita nella stasi, l’accelerazione finisce nell’inerzia. Nella forsennata situazione di stallo il pericolo aumenta. Tanto più che, se le élites hanno interiorizzato le norme dell’accelerazione, i lavoratori sono costretti a ritmi alienanti, mentre sui disoccupati grava l’esclusione. Ma il controllo sulla macchina dell’accelerazione sembra ormai sfuggito. Frenare, sabotare? Come interrompere la folle corsa, evitando, però, il salto autodistruttivo? Come arrestare l’ingranaggio malefico che vampirizza il nostro tempo e rovina le nostre vite? Il male che viene, a ben guardare, era già venuto. Bisognava essere ciechi per non vedere la catastrofe alle porte, per non riconoscere la maligna velocità del capitalismo che non sa, non può andare oltre, e avvolge nella sua spirale devastante, nel suo vortice compulsivo e asfittico.

 

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