Con il saggio (ricco di immagini) “Visus – Storie del volto dall’antichità al selfie”, Riccardo Falcinelli punta lo sguardo su qualcosa che diamo per scontato: le facce. Nell’arte, nei film, nelle pubblicità, su TikTok e anche nello specchio ogni mattina… – Su ilLibraio.it un estratto, in cui l’autore si chiede “qual è il confine che separa una faccia di fantasia da un ritratto?”
Dopo due saggi di successo come Cromorama e Figure, Riccardo Falcinelli firma per Einaudi Stile Libero Visus – Storie del volto dall’antichità al selfie (con oltre 600 immagini a colori), un libro che punta lo sguardo su qualcosa che diamo per scontato: le facce. Nell’arte, nei film, nelle pubblicità, su TikTok e anche nello specchio ogni mattina…
Pubblicando i selfie su Instagram, come sostiene l’autore, ci poniamo gli stessi problemi che si è posto ogni artista e comunicatore nella Storia: cercare di rendere una faccia piú eroica, autorevole, addirittura divina. O magari conferirle valori morali, come i pittori del Rinascimento, che ritraevano i sovrani accanto a una colonna o una tenda per esprimere maestà e prestigio.
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La faccia è la parte del corpo più soggetta ad attribuzioni di senso: anche se tendiamo a considerarli qualcosa di “naturale”, i volti sono sempre una costruzione culturale.
Da Alessandro Magno a Rita Hayworth, da Elsa di Frozen al bambino della Kinder, dall’icona di Cristo fino alle foto sulle lapidi dei nostri nonni, Falcinelli, noto graphic designer, propone una “facciologia”, chiamando in causa l’arte, la semiotica, le neuroscienze, la storia politica, la moda e i cosmetici. Perché il volto che ci costruiamo può determinare la vita che faremo…
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:
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Intorno agli anni Trenta del Cinquecento, Michelangelo è impegnato nella decorazione della Sagrestia Nuova a Firenze. È qui che realizza la tomba e il ritratto di Lorenzo de’ Medici, duca di Urbino, nipote del più famoso Lorenzo il Magnifico. Michelangelo ne fa una figura idealizzata: lo veste come un generale romano e gli dà un’aria pensosa e melanconica, come si addice – secondo il gusto dell’epoca – agli ingegni più alti. A chi fa notare che la statua non somiglia per niente al duca, Buonarroti risponde che dopo mille anni nessuno ricorderà più le fattezze di Lorenzo e dunque poco importa: anche perché lo scopo dell’arte è celebrare la gloria degli uomini in eterno, non puntare al compiacimento dei contemporanei.
Per capire il senso del ritratto michelangiolesco (e delle sue idee in proposito), vale la pena confrontarlo con un quadro a olio (attribuito a Raffaello) che ci mostra Lorenzo de’ Medici in modo più somigliante. O forse, «più somigliante» solo in apparenza.
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La cosa che salta subito all’occhio è che la scultura non tiene conto di nessun attributo reale del duca – come la barba o la forma del naso –, preferendo inventare un volto di fantasia imbevuto di echi classici: quello di Michelangelo è un personaggio eroico che simboleggia Lorenzo, ma non è davvero lui. Il dipinto, al contrario, ci dà l’idea che se incontrassimo Lorenzo de’ Medici per strada saremmo in grado di riconoscerlo. Ed è esattamente questo che Michelangelo detestava: trovava la somiglianza fisiognomica una forma inferiore d’arte perché priva di inventiva. L’unica eccezione conosciuta è un disegno a matita col volto di Tommaso de’ Cavalieri, di cui si dice fosse innamorato.
Le valutazioni michelangiolesche non sono tuttavia singolari o isolate. Giovanni Battista Armenini, pittore e scrittore cinquecentesco, sostiene addirittura che i ritratti migliori sono quelli meno somiglianti, perché prova di pittori più bravi. Idea che torna spesso nella storia dell’arte, e arriva dritta fino al xx secolo. Anzi, nel mondo moderno, proprio perché la fotografia permette senza sforzo una grande somiglianza, gli artisti se ne sono allontanati di proposito. Nel Manifesto tecnico della pittura futurista, stilato nel 1910, si legge che «un ritratto, per essere un’opera d’arte, non può né deve assomigliare al suo modello».
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L’aneddoto più famoso sul tema, non a caso, è novecentesco e riguarda il ritratto che Picasso realizza per Gertrude Stein, in cui i piani del viso sono scomposti e geometrizzati. «Tutti dicono che lei non assomiglia a quel quadro, – diceva Picasso, – ma questo non fa nessuna differenza, gli assomiglierà»: come a dire che col tempo l’arte è capace di imporsi nell’immaginario più della realtà stessa. «Per me sono io, – commentava Stein qualche anno dopo, – è la sola mia replica in cui sono rimasta sempre io», ribaltando dunque il problema, e affermando che il valore di un’opera è anzitutto nel tocco dell’artista e non nella somiglianza che, in fin dei conti, è un parametro ben più modesto (specie se gli artisti sono Michelangelo o Picasso).
Ma se stanno così le cose, qual è il confine che separa una faccia di fantasia da un ritratto? Rispondere è la premessa necessaria a qualsiasi discorso sull’invenzione del volto.
(continua in libreria…)
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