Lo scrittore Paolo Di Paolo, in libreria con “Rimembri ancora”, propone su ilLibraio.it una riflessione sul significato della poesia e su come questa sia un filo invisibile tra passato e presente, tra generazioni lontane che cantano gli stessi temi. Perché “senza Dante, senza Petrarca, dire ‘amore’ in italiano sarebbe più difficile: come dire ‘love’ se non ci fosse stato William Shakespeare…”
È difficile dire come nasca una poesia in una mente umana.
Per secoli si è considerata l’espressione in versi il frutto di una ispirazione divina, “qualcosa che proviene da un altrove misterioso e remoto che rende l’uomo, per un momento, folle: un invasato, preda di quella che Platone chiamava mania“. Così scrive lo studioso Piero Boitani in una raccolta di “lezioni sulla poesia” di qualche anno fa. E ci spinge a ragionare su un rapporto antichissimo, originario, fra meraviglia e parola poetica.
Ogni nuovo poeta, ogni nuova poetessa, anche se talvolta inconsapevolmente, entra nella più ampia vicenda dello sviluppo universale dell’espressione della nostra specie; ed è in rapporto con chi, in tempi più o meno remoti, ha compiuto lo stesso gesto. Detto altrimenti: scrivere significa portare avanti una staffetta invisibile, ereditata da chi ci precede; instaurare un dialogo, assorbire una lezione e rivisitarla, o anche contraddirla. In questo senso la poesia di un tempo che definiamo presente è sempre e comunque legata al passato, in un legame di continuità anche nell’apparente frattura, interruzione, discontinuità.
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Dante decide di farsi accompagnare nel viaggio della Commedia da un autore che non ha mai conosciuto, il poeta latino Virgilio. È un fatto simbolico: procede nella creazione letteraria ispirato dalle parole di chi è venuto prima. Un poeta inglese dell’Ottocento come John Keats si mette a dialogo ideale con Omero.
Allo stesso modo, ancora oggi chi comincia a scrivere lo fa perché ha letto qualcosa che l’ha colpito, influenzato, spinto a tentare quella strada per raccogliere un’eredità o per confrontarsi con quel modello e magari per riuscire a superarlo.
In una storia letteraria, in una antologia scolastica – quando le abbiamo davanti negli anni di studio – è oggettivamente difficile riconoscere a colpo d’occhio il segno e il peso di questa staffetta. Nelle pagine di Rimembri ancora * (il Mulino), ripescando alcuni testi fra i più noti della tradizione scolastica, da Carducci a Montale, ho provato ad accostare di tanto in tanto poesie scritte in momenti diversi e non direttamente legate ma connotate dallo stesso stato d’animo, dalle stesse domande. Giacomo Leopardi, nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, e Giovanni Pascoli, nella più che celebre X Agosto, guardano sgomenti e dubbiosi allo stesso universo, sfidando entrambi il non-senso del Tutto. Parole e biografie diverse, un sentire comune.
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Se pensiamo al tema dei temi – l’amore! – queste parentele più o meno consapevoli diventano più evidenti. Ricordo, in un capitolo di Rimembri ancora, che parlavano d’amore i primi poeti in questa lingua che chiamiamo italiana. I primi a dire amor, amore, amanza: “un amor mi distringe”, scriveva uno di loro, Giacomo da Lentini (1210-1260) e tutti gli autori di quella “scuola” – sotto un sole siciliano del XIII secolo – avevano una donna di cui scrivere, stretta e dipinta nel cuore; e il bello era chiedere a una canzone di correre da lei, ovunque fosse. C’è una canzone cantata da Lucio Dalla e scritta da Samuele Bersani che si chiama Canzone e allude esplicitamente all’abitudine letteraria di “inviare” una canzone all’innamorata: “Canzone, cercala se puoi / dille che non mi perda mai…”.
Senza i poeti siciliani, senza Dante, senza Petrarca, dire “amore” in italiano sarebbe più difficile: come dire “love” se non ci fosse stato William Shakespeare. E da loro una staffetta che percorre i secoli e non si è mai interrotta.
Chiunque nella vita provi a scrivere una poesia, o una canzone, per forza la scrive anche d’amore. Sono anche d’amore il novanta per cento dei libri, dei film. L’amore che cerchiamo, accettiamo, rifiutiamo o ci è rifiutato, l’amore che ricordiamo e quello che dimentichiamo, l’amore che avremmo voluto dare e quello che avremmo voluto ricevere.
A scuola, misteriosamente, ci facciamo a malapena caso.
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Ma l’evidenza non ci sfugge quando abbiamo le cuffie alle orecchie e ascoltiamo musica pop. Nella playlist di ciascuno il numero di testi che evocano stati d’animo legati all’innamoramento è notevole. Uno scrittore e poeta scozzese, John Burnside, in un libro intitolato La natura dell’amore (Fazi, traduzione di Giuseppina Oneto), ha usato come titolo di ogni capitolo del suo saggio narrativo una canzone d’amore particolarmente amata. Così riesce a dimostrare che le canzoni parlano d’amore – detto nel modo più semplicemente possibile – per consentirci di sognare. La vita adulta, nella pressione delle necessità e delle scadenze quotidiane, dei problemi da risolvere e delle piccole o grandi difficoltà da superare, non lascia sempre spazio alla dimensione del sogno.
Burnside fa l’esempio di sua madre, che era solita ascoltare la radio occupandosi delle faccende domestiche. Passava da quelle onde sonore “un costante sciabordio di vecchie canzoni d’amore, tutte un ‘non mi lasciare’ e ‘tu sei mio’ (…). Riusciva ancora, mentre cucinava o quando la domenica infornava una teglia dopo l’altra, a restare come una statua di sale ascoltando qualche vecchia canzone (…). Se una melensa canzone d’amore sopiva per un po’ il senso di sconfitta, chi ero io per prenderla in giro?“. Forse, come la madre del narratore, tutti e tutte siamo di tanto in tanto nella condizione di sentirci sconfitti. Da cosa? Dal fallimento di un progetto, di una relazione, da una stagione complicata e sconfortante. Una canzone d’amore entra in quello stato d’animo e magari riesce, se non a modificarlo, ad attenuarlo per qualche minuto. O a trasformare quella malinconia in arte. Come fanno i grandi poeti:
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
L’AUTORE E IL NUOVO LIBRO * – Paolo Di Paolo, classe 1983, noto scrittore, saggista e critico letterario, firma per il Mulino il suo libro: Rimembri ancora – Perché amare da grandi le poesie studiate a scuola. L’autore riprende le poesie studiate – e spesso dimenticate – da adolescenti, per scoprire e riscoprire la bellezza e l’importanza di quei componimenti.
Avvicinando autori contemporanei ad altri più classici, come ad esempio Ray Bradbury a Carducci o Yasmina Reza a Manzoni, Di Paolo parla di letteratura ma anche della sua vita, e si mette in gioco raccontando la sua storia di studente e aspirante scrittore.
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Laureato in Lettere e con un dottorato di ricerca in Studi di storia letteraria e linguistica italiana, Paolo Di Paolo conduce su Rai Radio 3 La lingua batte, dedicata alla linguistica e ai cambiamenti della lingua italiana. Con Romanzo senza umani (Feltrinelli), un libro che si interroga circa gli “incidenti emotivi” della vita di ognuno, è stato finalista al Premio Strega 2024.
Tra i suoi altri romanzi (tutti pubblicati da Feltrinelli), ricordiamo Mandami tanta vita (2013, finalista al Premio Strega), Una storia quasi solo d’amore (2016) e Lontano dagli occhi (2019, vincitore del Premio Viareggio Repaci). Di Paolo ha scritto inoltre diversi saggi e libri per ragazzi, oltre che alcuni testi teatrali. Autore prolifico, con Mondadori ha firmato nel 2020 Svegliarsi negli anni Venti. Il cambiamento, i sogni e le paure da un secolo all’altro. Tra i suoi libri anche Tempo senza scelte (Einaudi, 2016) e Vite che sono la tua – Il bello dei romanzi in 27 storie (Laterza, 2019).
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