Più o meno tutti, come Mauro Barbi – il protagonista del nuovo libro di Paolo Di Paolo, intitolato “Romanzo senza umani” – siamo riusciti a deludere un vecchio amico, a tiranneggiare qualcuno ingiustamente. Più o meno tutti, come lui, non siamo stati all’altezza di una storia d’amore, né abbastanza riconoscenti con chi lo meritava. Ci siamo fatti dimenticare. O peggio, ricordare nel modo sbagliato. Può esserci una seconda occasione? – Su ilLibraio.it un estratto
Un uomo solo cammina lungo le rive di un grande lago tedesco. È partito all’improvviso, chiudendo in valigia l’essenziale e un post-it stropicciato con una strana lista di nomi. Forse Mauro Barbi vuole mettersi al riparo dagli effetti di una serie di “incidenti emotivi” – così li chiama – che lui stesso ha provocato.
È in questa atmosfera che si apre Romanzo senza umani (Feltrinelli), il libro con cui torna in libreria Paolo di Paolo, saggista, firma di diverse testate, scrittore di testi teatrali e storie per ragazzi, nonché autore dei romanzi Dove eravate tutti (2011, Premio Mondello e Premio Vittorini), Mandami tanta vita (2013, finalista Premio Strega), Una storia quasi solo d’amore (2016, finalista Premio dei Lettori) e Lontano dagli occhi (2019, Premio Viareggio-Répaci), tutti editi da Feltrinelli e tradotti in diverse lingue europee.
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Il protagonista è un uomo ripiombato nella vita di persone che non vedeva da tempo, pretendendo di riannodare fili interrotti, di avere risposte fuori tempo massimo. Si è messo in testa di far coincidere i ricordi altrui con i propri, di modificare e riparare la memoria di amici e compagni di strada, imponendo la sua versione dei fatti.
Perché? Forse c’entra una piccola era glaciale privata, un processo di raffreddamento che ha spopolato la sua esistenza e di cui cerca le ragioni. Ma il grande lago a cui ha dedicato anni di studio può dargli le conferme che cerca?
Barbi vede, anzi immagina, l’immensa lastra di ghiaccio che lo copriva quattro secoli e mezzo prima. Il sole pallido su una catasta di uccelli morti, precipitati come pietre. Le anatre assiderate, i lupi affamati. Il cuore di un lunghissimo e spaventoso inverno che travolse l’Europa con i suoi venti polari, le grandinate furiose, le inondazioni.
Non è una distopia, è l’esatto contrario: è il 1573. Una remota stagione estrema, che faceva battere i denti, perdere la speranza, impazzire. Come se ne uscì? Come se ne esce? Le immagini del passato ci ingannano sempre, e Barbi prova a rientrare nel presente con tutta l’ansia e la fatica che richiedono i gesti semplici, finché uno di questi gesti sembra poter fare la differenza.
In Romanzo senza umani, dove gli umani in realtà sono a fuoco più che mai, Paolo Di Paolo interroga così i disastri climatici delle nostre singole vite. Gli anni senza estate, i desideri furiosi come acquazzoni tropicali, le secche della speranza, il gelo che intorpidisce e nasconde. E poi il disgelo, che finalmente riporta alla luce…
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto:
È stato sempre così difficile affidarsi. Ancora più che fidarsi; credere nelle alleanze che maturano senza parentele dirette, nei sodalizi fra estranei che smettono di esserlo per qualche anno, se va bene per decenni. Ma accade che tornino tali: per via di accidenti imprevisti, una cabala altrettanto misteriosa di quella che ci fa incontrare e piacere. Essere per caso i compagni di banco, gli stravolti da un colpo che chiamiamo di fulmine, i colleghi che cominciano a capirsi dopo avere ordinato la stessa insalata, gli aderenti allo stesso culto – un hobby domenicale, lo stadio, una forma di militanza, una perversione, una fede.
La birra bevuta insieme sullo stesso precipizio. Il panino strappato a morsi, in lacrime, condividendo una panca di marmo fuori da un ospedale.
È inutile girarci intorno: ho fatto fatica. Non mi è mai venuto facile niente.
Dovessi dire che il mio problema è stato la timidezza, non sarei bugiardo ma impreciso. Forse sarebbe più onesto dire che nel tempo mi sono convinto di essere timido, usando da schermo la prudenza, impastata alla paura di deludere e di essere deluso. Mi sono nascosto, defilato più che potevo, sgusciavo via appena mi sentivo indifeso, nudo, anche in senso letterale. Spaventato all’idea di svelarmi.
Svelare cosa? In qualche seduta feroce di autoanalisi ero preso dal dubbio di non avere granché da custodire, e che se avessi finalmente lasciato avvicinare qualcuno, avvicinare davvero, si sarebbe ritratto dicendo: be’, tutto qui?
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Dev’essere stato nel pomeriggio del mio nono, forse decimo compleanno.
Il drappello dei ragazzini invitati affolla il giardino muovendosi saltellante e scomposto intorno al tavolo dei panini e delle pizzette. I genitori chiacchierano indifferenti e sollevati da un paio d’ore di responsabilità condivisa.
Non so che cosa mi prenda all’improvviso, un moto di insofferenza che diventa rabbia: scappo di corsa in camera mia, chiudendomi la porta alle spalle. Il primo che se ne accorge viene a cercarmi, bussa forte, dà la voce agli altri, e nel giro di qualche minuto mi ritrovo all’uscio dieci compagni di classe allarmati e urlanti: “Mauro, Maurooo, esci! Vieni fuori!”.
Qualcuno ritiene di chiedere l’intervento dei grandi, come per un pericolo ingestibile: nel tempo che mi separa dall’arrivo del genitore di turno, mio o altrui, piango con una disperazione esagerata, restando quasi in apnea. È una reazione fuori misura: ma a cosa?
È il giorno della mia festa. Tutti sono lì per me, che cosa non va? Adesso uscire dalla camera in cui mi sono chiuso mi provoca un imbarazzo penoso, mi toccherà sfi lungo il corridoio come un condannato a morte, incapace di giustificare il proprio comportamento.
Che ti è successo? Ora va meglio?
No, non va meglio. Non va meglio per niente! Piango se ve ne andate. Piango se restate.
Il commercio con gli altri, con le loro attese, i loro desideri, i loro giudizi, benevoli o malevoli che fossero, non ha mai smesso di affaticarmi.
Diagnosi: introverso. Parli poco, te ne stai in disparte, o sulle tue. Ma io guardavo le cose e parlavo direttamente con loro. Loro rispondevano stando zitte come me, era una preghiera, da silenzio a silenzio.
Foglia che tremi, mare che ondeggi, lancetta che giri, porta che sbatti.
Mi veniva più facile che parlare con gli umani, con i grandi – mai davvero leali, mai trasparenti: più che le loro parole trovavo sinceri i loro sbadigli, gli starnuti, i rutti, il russare nel sonno, le scoregge, i rumori intestinali.
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Non è strano? Non avrebbe dovuto idealizzarmi e aderire ciecamente alla mia difettosa persona? Al punto da non vederne ombre, mancanze, storture.
Invece avanzava le sue pretese, e io vivevo il duplice sconcerto di chi non si capacita di essere il destinatario di un sentimento così sproporzionato e intanto si domanda: ma se mi giudica così, se pensa che sono rigido e freddo, che cos’altro vede in me? cos’altro le piace?
Vivremmo meglio se, venendoci incontro, gli altri sventolassero un cartello, srotolassero uno striscione con su scritto
e fossero pronti a chiarirlo da subito, mettendoci nelle condizioni di sapere per tempo quanto e cosa si aspettano, e di rispondere che non è il caso e girare le spalle.
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