L’arrivo nelle sale è previsto per il 24 maggio 2023, ma è bastata l’uscita del trailer ufficiale a scatenare il dibattito sulla scelta dell’attrice afroamericana Halle Bailey per interpretare la nuova Sirenetta Disney nell’atteso film live action. Il punto di vista di Maria Beatrice Alonzi, scrittrice, divulgatrice scientifica e business strategist, autrice di “Non voglio più piacere a tutti” e del romanzo “Noi, parola di tre lettere”, che sui social ha preso posizione in questa polemica: “Chiunque decida, guardando solo un trailer (poiché il film non è ancora uscito), che una Sirenetta nera non sarà all’altezza del personaggio, o che non andrà bene perché non in linea con il cartone animato, o si crede derubato della propria infanzia, sta avendo un pensiero razzista. Razzismo interiorizzato, sicuramente, inconsapevole, ma ciò non lo depotenzia…” –

L’arrivo nelle sale è previsto per il 24 maggio 2023, ma è bastata l’uscita del trailer ufficiale a scatenare il dibattito. In questi giorni, sui social e non solo, non sono certo mancate le polemiche su Halle Bailey, l’attrice afroamericana che interpreta la nuova Sirenetta Disney nell’atteso film live action.

Sono arrivati diversi commenti razzisti, altri “nostalgici” (di chi ricorda il film d’animazione di culto della Disney datato 1989 e basato sull’omonima fiaba di Hans Christian Andersen), altri ancora che se la prendono con il politically correct (qui la sintesi di tg24.sky.it, che riporta anche il punto di vista dell’autrice e attivista italo-ghanese Djarah Kan).

In Italia, tra gli altri, è intervenuta sui suoi social Maria Beatrice Alonzi, scrittrice, divulgatrice scientifica e business strategist, un riferimento sul tema dell’accettazione di sé e del raggiungimento degli obiettivi personali e professionali. Alonzi, che dopo aver autopubblicato Il libricino della felicità ha raggiunto il successo con Non voglio più piacere a tutti (Vallardi), nei mesi scorsi ha pubblicato il suo primo romanzo, Noi, parola di tre lettere (Salani), in cui racconta “la generazione senza futuro“, che si sente derubata di ogni possibilità.

Su Instagram l’autrice ha spiegato che “l’inclusione è e deve essere parte integrante della nostra evoluzione”. Le sue parole hanno suscitato non poche reazioni e critiche. E non è certo la prima volta che, a partire dai social, scoppiano polemiche di questo tipo. Abbiamo quindi chiesto a Maria Beatrice Alonzi, che di queste dinamiche spesso si è occupata, cosa l’ha spinta a prendere posizione nel caso della Sirenetta: “Uso i miei social per fare divulgazione, nello specifico sullo stigma della malattia, del malessere e del disturbo mentale e su quello della terapia; inoltre, mi occupo dell’approfondimento sulla comunicazione, verbale, paraverbale e non verbale, da Analista in Tecniche e Metodi di Analisi Comportamentale. Sapere come funzionino le nostre dinamiche, cosa possa avere scaturito cosa, in chi, in che modo, ci fa sentire meno soli poiché ci fa riconoscere. Altrettanto, conoscere il modo nel quale si sceglie (o meno) di dire qualcosa, ci regala gli strumenti per vedere il mondo con un filtro di meno”.

A questo punto del suo discorso la divulgatrice entra nel vivo del dibattito in questione: “Cerco di togliere qua e là veli del tipo ‘si è sempre fatto così’ e ‘non sono razzista né omofobo, perché ho amici neri e un cugino gay‘, allo scopo di metterci di fronte alle responsabilità che abbiamo come esseri umani e come parte di una comunità che, al contrario dell’alibi comune, non è astratta, ma costruita nell’intreccio delle nostre azioni e scelte collettive”.

E poi argomenta: “Viviamo un momento storico in cui chiunque può dare voce alle proprie paure, alle proprie distorsioni cognitive (e così alimentarle), alle proprie frustrazioni e al proprio dolore e, se non si sta attenti, le si scambiano per opinioni, a volte addirittura per realtà. Una Sirenetta nera ha portato riconoscimento e senso d’appartenenza a miliardi di bambine e ragazze che, a causa di una polemica razzista, rischiavano di schiantarsi contro il suolo xenofobo delle urla social”.

Per Alonzi “i social non nascono come luogo di scambio intellettuale, ma economico, sono piattaforme di marketing delle quali noi continuiamo a dimenticare lo scopo. La polemica viene sempre preferita dagli algoritmi di copertura dei post, perché suscita interazione. E le interazioni, come i like, i commenti, i repost, i video-risposta e così via, tengono per un tempo superiore le persone sulla piattaforma, che è tutto ciò che auspica chi ha bisogno di mostrarti 1, 10, 100 annunci pubblicitari”. Ecco quindi che “più resti, più posso darti occasione di vedere un prodotto o servizio e acquistarlo”.

Conosco bene questi meccanismi – prosegue Alonzi -, sono parte del mio lavoro di business strategist, per questo quando mi tolgo quel cappello e indosso quello della divulgatrice, propongo contenuti che tolgono potenza alla polemica e la restituiscono al messaggio“.

Nello specifico, “la Sirenetta è la storia di un amore diverso e impossibile, tra una donna sirena e un essere umano, ambientata in un tempo in cui l’amore omosessuale aveva le stesse caratteristiche. Chiunque decida, guardando solo un trailer (poiché il film non è ancora uscito), che una Sirenetta nera non sarà all’altezza del personaggio, o che non andrà bene perché non in linea con il cartone animato, o si crede derubato della propria infanzia, sta avendo un pensiero razzista. Razzismo interiorizzato, sicuramente, inconsapevole, ma ciò non lo depotenzia“.

Fatte queste premesse, domandiamo quindi ad Alonzi se pensa che i social siano lo strumento giusto per sensibilizzare a queste tematiche, o comunque uno strumento opportuno per iniziare un dialogo costruttivo: “Non sono lo strumento ideale, perché non nascono per questo, quindi i contenuti di approfondimento non avranno mai lo stesso rilievo di quelli che si muovono sugli istinti più profondi dell’individuo (come l’indignazione), che portano alla reazione immediata. Al commento truce, alla condivisione senza pensarci due volte. Un contenuto polemico non ci dà tempo di riflettere, perché è un contenuto polarizzate, divisivo. Noi siamo sempre tentati verso l’estremo, perché nell’estremo vivono le masse, vive il riconoscimento del branco: i contenuti che ci fanno scegliere bianco o nero (il gioco di parole è calzante) muovono sul nostro istinto di sopravvivenza o su quello di giustizia, non c’è gara. Ma i social, proprio perché basano il loro successo sull’indovinare il contenuto giusto da mostrare alla persona giusta (ricordiamo che gli algoritmi lavorano esclusivamente in modo predittivo, quando mostrano qualcosa a qualcuno), sono lo specchio di ciò che ci interessa, e immettere contenuti di valore significa portare più persone di valore all’interazione. Un’interazione meno polarizzata, quindi meno efficace ma, alla lunga, non meno efficiente“.

Torniamo al video di Alonzi, che ha suscitato non poco livore, a giudicare dai commenti: “Per sapere di avere paura del diverso, devi ammettere di avere paura. Solo allora capirai che diverso non significa niente se non ‘ognuno’ e smetterai di credere nell’integrazione e comincerai a credere (e la parola due volte, non la scelgo a caso) nell’uguaglianza. Le vedo già le facce di chi legge queste righe e grida al politically correct. Piuttosto che armarsi di messa in discussione ed empatizzare con chi necessita di venire rappresentato, preferiamo costruire muri intorno alle nostre città mentali, in cui chiudiamo la storia dell’amore omosessuale sublimato da Andersen dentro una torre, e vi imprigioniamo la sirena disegnata bianca con i capelli rossi e gli occhi azzurri, l’immagine di quell’infanzia che ci ricorda tutto quello che non siamo stati, in un momento della crescita dove ancora ci sembrava tutto possibile e potevamo credere nelle favole. E, così facendo, ci illudiamo di difenderci dagli attacchi del cambiamento che la società ci invia”.

A questo punto l’autrice e divulgatrice pone una domanda: “Volete sapere qual è la cosa più difficile per l’essere umano? Accettarlo il cambiamento, non operarlo. Accettare di dover reimparare a pensare, ritrovare un diverso status. Le strade sono lastricate da buone intenzioni, da campi piene di mine, che altro non sono che i nostri pregiudizi. E noi non ci pensiamo nemmeno a dissotterrarle, sia mai che ci esplodano in faccia!”.

Chiudiamo soffermandoci sulla fiaba di Andersen. Qual è il cuore di questa storia? Per Alonzi, “nell’originale la nostra beniamina Ariel non è né l’una né l’altra, non ha nome e sceglie di andare in superficie non per amore, ma per poter possedere finalmente un’anima, riservata agli umani e non alle sirene. Anima che ci ricorda quanto questa storia avesse comunque anche un legame religioso con il cristianesimo (credo che a sua volta Andersen si appropri di quel termine grazie a Sant’Agostino che traduce e integra la parola greca, prima Platonica e poi Aristotelica, psyché); anima che manca ma che non serve, perché la Sirenetta sceglie di non uccidere l’uomo che la rifiuta e che la tratta come un animale domestico; anima che non arriva nemmeno in punto di morte (poiché la Sirenetta è rimasta nubile), quando, salvata dalle creature dell’aria che le regalano la possibilità di vagare con loro per 300 anni, la Sirenetta scompare. Niente anima quindi, giusto? E l’amore allora, dove sta? C’è. Nel gesto della Sirenetta di lasciare a terra il coltello invece che trafiggere l’umano al fine di guadagnarsi la vita sulla terra, una sopravvivenza che, nel racconto di Andersen, ha un peso infernale: non solo perdere la voce, ma ‘camminare sui coltelli’. Ciò che prova una sirena, a ogni passo della sua vita umana, è proprio la strega del mare a spiegarlo alla Sirenetta, ma questo non la ferma, lei lo vuole lo stesso. Sta lì l’amore: nell’accettazione del cambiamento, anche se porta dolore, poiché forza propulsiva di una vita diversa, per chi, anche se figlia di re, vuol essere invece come tutti gli altri, anche se fa male da morire. E allora un po’ d’amore ce l’ho messo pure io: nel mio tentativo, attraverso i video, di ridicolizzare l’alzata di scudi sul colore della pelle della nuova sirena Disney, indicando quanto fosse in realtà una tematica identitaria, per ribellarsi allo straniero, al diverso, all’oscuro, alla paura; perché se avessero letto la fiaba originale, coloro che non vogliono questa sirena nera, avrebbero visto con i loro occhi (e forse anche sentito, chissà) da quanti coltelli sotto i piedi si è disposti a lasciarsi ferire, pur di sentire di appartenere ad un mondo che, comunque, ci sembra migliore del nostro. O forse solo più bianco”.

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