L’accento di sé stesso, l’indicativo nelle interrogative indirette, la concordanza a senso, famigliare o familiare? Esiste una “grammatica percepita”, forse ereditata dalla scuola e sicuramente deformata col passare del tempo, che ci spinge a considerare sbagliate forme ed espressioni del tutto corrette. Con Massimo Birattari ecco una serie di errori che non sono errori (e che in verità non lo sono mai stati)

Piccola premessa. Ci sono molti tipi di errori di grammatica, e la stessa nozione di errore richiederebbe una lunga trattazione. Per praticità, qui consideriamo errore ogni forma oggi non ammessa da una buona grammatica o da un buon vocabolario dell’uso.

L’accento di sé stesso

“La mia professoressa di italiano mi avrebbe dato 4 se avessi scritto sé stesso con l’accento.”

Quella professoressa (ammesso che si comportasse davvero così) avrebbe sbagliato. Il pronome personale riflessivo di terza persona singolare e plurale si accenta per distinguerlo dal pronome atono (“se ne va”) e dalla congiunzione se (“se stessi attento capiresti”, “non so se hai capito). Per ragioni non chiare, si è affermata, a scuola ma anche nei prontuari redazionali di giornali e case editrici, la licenza di omettere l’accento se il pronome è seguito da stesso, stessa ecc.

È una licenza, però: non esiste nessun divieto di mettere l’accento su sé stesso. I grammatici anzi si sgolano da decenni a dire che si tratta di un uso privo di senso: già è faticoso spiegare ai ragazzi la differenza tra se congiunzione, se pronome atono e pronome personale riflessivo, e introdurre subito un’eccezione è controproducente; in più, l’eccezione apre la strada a veri errori (chi scrive se stesso potrebbe pensare che sia lecito scrivere *a se stante, cosa sbagliata) ed equivoci, perché se stessi e se stesse, senza accento, possono voler dire se io stessi, se tu stessi, se lui/lei stesse.

Riepilogando: è sicuramente preferibile mantenere l’accento su sé stesso, sé stessa, sé stessi, sé stesse; le forme se stesso ecc. non possono essere considerate errori, vista la loro diffusione (pur illogica); l’unico vero errore è considerare sbagliato sé stesso.

L’indicativo nelle interrogative indirette

“La contabilità chiede se avevi incluso nelle spese anche la benzina.”

La frase “se avevi incluso nelle spese anche la benzina” è un’interrogativa indiretta, cioè una domanda (“Avevi incluso nelle spese anche la benzina?”) inserita in un discorso indiretto. Se scrivete il periodo iniziale con il più diffuso programma di videoscrittura, vedrete comparire una doppia sottolineatura blu sotto avevi.

È un intervento del cosiddetto correttore “grammaticale”: quello ortografico sottolinea in rosso le parole sbagliate, mentre quello grammaticale segnala una varietà di altri “errori”, dal doppio spazio fra due parole alla presenza di un articolo singolare prima di un nome plurale e così via.

In questo caso, il programma propone di correggere l’indicativo avevi con il congiuntivo avessi. I programmatori del correttore condividono cioè una convinzione diffusa tra alcuni utilizzatori compulsivi del congiuntivo, secondo i quali le interrogative indirette richiederebbero obbligatoriamente il congiuntivo.

Questo però non è vero: quell’obbligo esisteva in latino, ma la sintassi italiana non è quella latina. Con le interrogative indirette in italiano, la scelta tra indicativo e congiuntivo è solo stilistica: l’indicativo è più immediato e vicino al parlato, il congiuntivo è più elevato e più adatto a una scrittura sostenuta. In sé, dunque, quell’avevi non è un errore.

La concordanza a senso

“La maggior parte delle parole italiane hanno l’accento sulla penultima sillaba.”

Perché molti considerano errore il verbo plurale hanno in questa frase? Perché – dicono – il soggetto (la maggior parte) è singolare, e dunque il verbo deve essere al singolare. Ma si tratta di una normale concordanza a senso, diffusa in moltissime lingue (a partire dal latino e dal greco) e comunissima per gran parte della storia linguistica dell’italiano: se il “soggetto” è un semplice quantificatore che indica una pluralità ed è seguito da un sostantivo al plurale, il senso permette l’uso di un verbo al plurale.

Del resto, che differenza potrà mai esserci fra “cento mucche pascolano nel prato” e “un centinaio di mucche pascolano nel prato”? In italiano, la concordanza a senso sta passando di moda e viene percepita sempre più spesso come un errore. Ma in casi come questi non lo è.

Famigliare

“Voi non siete Natalia Ginzburg, quindi qui scriverete familiare. È la frase (vera) di un professore di liceo, che esigeva dagli studenti la grafia con la semplice l (tranne quando dovevano citare il capolavoro di Natalia Ginzburg, appunto Lessico famigliare).

In realtà, in italiano sono perfettamente corrette entrambe le forme: famigliare è la naturale derivazione da famiglia, familiare invece è il recupero dotto dalle forme latine (familia, familiaris). È interessante notare che in Lessico famigliare l’unica occorrenza con il gl è nel titolo; nel testo si usa sempre la forma familiare (la “nostra unità familiare”, le “antiche abitudini familiari” ecc.).

Le ciliege e le valige

Quando, nel 2008, uscì il grande romanzo postumo di Oriana Fallaci intitolato Un cappello pieno di ciliege, si sprecarono i commenti preoccupati online: l’ignoranza si diffonde, ormai si accetta tutto, come è possibile che una casa editrice infili un errore di ortografia in un titolo… Gli stessi commenti compaiono periodicamente quando si legge in un libro o su un giornale valige senza i.

un cappello pieno di ciliege

Il plurale di nomi ed aggettivi femminili in-cia e -gia (con la i non accentata) è una questione spinosa. A scuola si insegna una regola pratica: se prima del gruppo -cia/-gia c’è una vocale, il plurale mantiene la i: ciliegie, valigie, grigie, malvagie; se prima del gruppo -cia/-gia c’è una consonante, il plurale perde la i: province, strisce, frecce. Ma si tratta, appunto, di una regola pratica, che serve a distinguere le camicie dal camice e a evitare brutture ortografiche come le *freccie e le *striscie.

Detto questo, una forma come provincie (che era presente nel nome ufficiale della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde) è perfettamente giustificata dall’etimologia (nella parola latina provinciae la i c’era), mentre la i di grigie non ha nessuna giustificazione etimologica.

Dunque la regola pratica va benissimo, ma basta aprire qualunque vocabolario per vedere che i plurali ciliege o valige sono ammessi (e un bel libro di grammatica per bambini, Gli esploratori del vocabolario di Andrea Cavalli Dell’Ara, Mursia 1967, diceva più o meno: “le ciliege senza i sono più dolci, le valige sono più leggere”). E se Oriana Fallaci preferiva la forma senza i, aveva tutto il diritto di usarla.

Un consiglio per finire

Conviene applicare alla grammatica il principio “Vivi e lascia vivere”. Possiamo benissimo odiare alcune forme e rifiutarci di usarle; ma se il vocabolario le ammette (senza limitazioni d’uso come scherz., scherzoso, scherzosamente; pop., popolare, popolarmente; ant., antico ecc.) non abbiamo il diritto di gridare all’errore.