Una professoressa pugliese ha analizzato con i suoi studenti l’ultimo rapporto Istat sulla lettura. E su IlLibraio.it argomenta: “La scuola può fare molto per la promozione della lettura, ma ci sono ragazzi che spesso si vergognano di confessarsi dei lettori, quasi fosse un’attività per sole ragazze…” – L’analisi

 “Pur essendo proprietario della
maggiore casa editrice italiana
probabilmente da forse vent’anni
non leggo un romanzo”

Silvio Berlusconi, 4 agosto 2003[1]

Tra i tormentoni più in voga uno in particolare riappacifica l’anima di chi è in avanti negli anni, quello che proferisce – nelle sua assortite varianti – “i giovani non leggono… ai tempi miei sì che leggevamo”. Allora, con i miei studenti ci siamo presi la briga di spulciare in classe l’ultimo rapporto Istat, pubblicato il 15 gennaio scorso, su La produzione e la lettura di libri in Italia negli anni 2013 e 2014. Ecco cosa abbiamo scoperto dal nostro osservatorio di un Liceo pugliese e cosa ci siamo ripromessi.

Il primo dato è preoccupante per l’intero paese, al Nord come al Sud. Rispetto al 2013, nel 2014 la quota dei lettori è scesa dal 43% al 41,4%, confermando la tendenza negativa avviata nel 2010. Forse non c’è da meravigliarsi se “in dieci anni il bilancio del ministero dei Beni culturali è stato tagliato del 36,4%, oltre un terzo: dopo la guerra lo Stato destinava alla cultura lo 0,8 per cento della spesa totale cioè il quadruplo di quanto investe oggi.”[2] Di fatto, più della metà della popolazione italiana non legge libri che non siano scolastici o professionali. A ben guardare, i dettagli ci informano che, se non consideriamo solo i dati macroscopici, lo scarto tra i lettori laureati o che hanno un titolo superiore e quelli in possesso della licenza elementare o nessun titolo è notevole – 74,9 % contro 24,6% – la qual cosa si commenta da sé, essendo piuttosto scontata. Le diseguaglianze sociali, economiche e territoriali gravano enormemente anche sui livelli di lettura. Ciò nonostante pure tra le persone con un titolo di studio superiore la propensione alla lettura è andata diminuendo nel tempo (dal 78,1% nel 2007 al 74,9% nel 2014).

Un secondo dato per noi scoraggiante riguarda il Sud e la Puglia in particolare. Certo, ci siamo detti, molti dei figli del Sud sono emigrati al Centro e al Nord – spesso proprio coloro con un titolo di studio superiore –  e rimpinguano le fila dei lettori. Pur tuttavia, i dati sono dati e, anche se ci stanno stretti, su di essi bisogna ragionare. Meno di una persona su tre nel Sud e nelle isole ha letto almeno un libro. La Puglia, poi, con il suo 26,8%, registra il penultimo posto tra le persone di 6 anni e più che hanno letto un libro nel tempo libero. Tra i “non lettori”, che rappresentano oltre la metà della popolazione, il primato spetta alla Sicilia (71,8%) cui segue la Puglia (70,8%). I dati sulla nostra regione ci hanno – non lo nascondo – meravigliato, perché noi pugliesi abbiamo la percezione che nel nostro territorio si sia investito tanto nel settore culturale (cinema, teatro, promozione turistica…), forse però non abbastanza in quel sistema di relazioni che incentiva la lettura, non abbastanza da invertire una tendenza negativa che ha radici profonde e lontane nel tempo.

Altri dati ancora confermano lo stato di salute critico della “lettura” in Italia: fortemente condizionata dall’ambiente familiare (non legge il 32,7% dei ragazzi con genitori che non leggono libri); abbandonata progressivamente dai “lettori deboli” (da 11,5 milioni del 2013 a 10,7 del 2014); trascurata nelle aree non metropolitane (la quota di lettori scende dal 50,8% al 37,2% in quelle con meno di 2.000 abitanti); non supportata da un’efficace educazione (il principale fattore che limita la diffusione dei libri in Italia per un editore su due); seguita stabilmente da solo il  14,3% di “lettori forti”.

A questo punto ci siamo chiesti: “Allora, chi legge nel Belpaese?”, “È vero quel che si dice dei giovani, che siano l’anello debole di una migliore catena?” “Coloro che tengono le redini della nostra vita politica  – ossia gli uomini –  sono i più avvezzi alla frequentazione di libri?”.  Così, dato dopo dato qualche barlume di luce chiarificatrice ci illumina. In controtendenza con il sentire generale, i numeri dell’Istat ci dicono altro. A leggere sono proprio giovani e giovanissimi: la quota di lettori è superiore al 50% della popolazione solo tra gli 11 e i 19 anni mentre la fascia di età in cui si legge di più è quella tra gli 11 e i 14 anni (53,5%). Tra i lettori sono le donne l’anello forte che tiene: la popolazione femminile mostra una maggiore propensione alla lettura già a partire dai 6 anni di età (complessivamente il 48% delle femmine e solo il 34,5% dei maschi hanno letto almeno un libro nel corso dell’anno). Il settore dell’editoria per ragazzi mostra nel 2013 un +18,6% di titoli pubblicati rispetto al 2012 (+23,1% per l’editoria educativo scolastica), il che sembrerebbe attestare la vitalità della fascia d’età in questione. Certo, non c’è da stare allegri, perché la flessione del numero dei lettori ha riguardato anche i giovani tra il 2013 e il 2014.

Se così stanno le cose, quindi, se a leggere sono soprattutto donne, lettori forti e giovani va de sé che su loro bisogna puntare per risollevare le sorti della fruizione libraria.  Abbiamo, così, rivolto lo sguardo su noi stessi, sul nostro piccolo osservatorio. Cosa ci siamo detti? Che, al di là del nostro essere in provincia, conta primariamente creare microcosmi fertili in antitesi allo sterile bovarismo ovvero al piacere veloce. Che la scuola può fare molto a patto che interagisca con questi microcosmi. Che la lettura non sopporta scadenze, giudizi, limitazioni. Che in materia sono necessari accanimento e resistenza. Che la passione per la lettura può essere solo indotta, se fa leva su meccanismi emotivi.  Certo, tradurre in pratica richieste impalpabili è difficile, ma gli aspetti tangibili su cui insistere esistono, soprattutto se partiamo da pregiudizi e limiti oggettivi: ad esempio, i ragazzi spesso si vergognano di confessarsi dei lettori quasi fosse un’attività per sole ragazze; le famiglie, ferme sul proprio livello economico-culturale, si sentono deresponsabilizzate  e non sostenute nella loro azione formatrice; gli spazi fisici, le biblioteche, le strutture dove incontrarsi sono carenti o inesistenti. In ultima analisi gravano ancora su di noi modelli culturali rigidi, i quali standardizzano mansioni differenti per bambini e  bambine, svalorizzano il ruolo dell’intellettuale, ci impongono stili di vita inclini al godimento facile, senza impegno, fatica, durata.

Modelli culturali frutto di una distorta politica culturale: “le idee, nelle società libere, non devono essere governate. Non ci deve essere una “politica culturale”; ma una politica per la cultura o “della cultura”, secondo la distinzione di Norberto Bobbio[3] In realtà, una vera politica per la cultura in Italia non solo è mancata, ma ha perseverato nel proporre modelli deformanti. Sarà allora il caso di riprendere la frase posta in epigrafe, di un capo di governo che per vent’anni non ha letto un romanzo, e ribaltarla e contrapporle microcosmi fertili diffusi, disseminati, autorigeneranti. A partire dal basso.

*L’autrice, docente di Lettere, vive a Ceglie Messapica (BR)

[1] Ignoranti – L’Italia che non sa L’Italia che non va, Roberto Ippolito, Chiarelettere, 2013, pag. 138
[2] Ibidem n. 1, pag. 158
[3] Gustavo Zagrebelsky, Fondata sulla cultura. Arte, scienza, Costituzione, Einaudi, 2014, pag. 108

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