Nel suo libro Marianna Corona (figlia del noto scrittore) racconta la sua infanzia in una famiglia speciale, l’incanto e la durezza del crescere tra le montagne, l’avvicinamento allo yoga e la malattia come momento doloroso ma, al tempo stesso, capace di rivelare cosa conta davvero… – Su ilLibraio.it la toccante prefazione di Mauro Corona

A Erto, il paese delle Dolomiti friulane segnato dalla tragedia del Vajont e amato dai climber per le sue falesie, c’è una via di roccia che si chiama “Mari’s Bad Rock Day”: è dedicata a Marianna Corona, in ricordo del giorno in cui lei proprio su quella parete si bloccò, senza riuscire più a salire né a scendere.

Ma Marianna ancora non sapeva che quella era solo una sorta di prova generale, in vista del passaggio ben più duro che la vita le avrebbe riservato nel 2017: la malattia, di fronte alla quale non c’è allenamento o tecnica che venga in soccorso, ma bisogna cercare dentro di sé le risorse per farcela.

Sì, perché la vita ha molto in comune con la montagna: è bellissima ma anche piena di rischi, ci chiede l’umiltà di mettere un passo dopo l’altro, di cercare gli appigli giusti, e soprattutto ci costringe a conoscere noi stessi, a dosare il respiro di fronte alle salite, a trovare un equilibrio prima di godere del panorama…

Nel libro Fiorire tra le rocce – La via dell’equilibrio quando la vita si fa ripida (Giunti), che unisce una testimonianza narrativa a una rivisitazione dei fondamenti della pratica yogica, Marianna Corona (figlia dello scrittore Mauro) una giovane donna coraggiosa racconta la sua infanzia in una famiglia molto speciale, l’incanto e la durezza del crescere tra le montagne, l’avvicinamento allo yoga e il suo grande respiro, la malattia come momento doloroso, ma al tempo stesso capace di rivelare cosa conta davvero.

Fiorire tra le rocce, Mauro e Marianna Corona

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, il testo di Mauro Corona dedicato alla figlia:

Fiorire tra le rocce e arte difficile. Richiede sforzi di pazienza, tenacia e passione. Per uscire all’aperto, vedere luce, ritrovare speranza e sole bisogna farsi largo, spostare sassi, aggirare pietre, scavalcare ostacoli. E graffiarsi la pelle.

A volte il fiore viene bastonato dalla tempesta, piegato dal vento, calpestato dagli animali. Allora, soprattutto per la specie giovane, diventa arduo fiorire e andare in su. Può succedere che la piantina in boccio venga brucata da un camoscio. A quel punto la storia si ferma. Quello che cresce tra le rocce è un fiore semplice, umile, schivo. Non per questo meno bello.

Pensiamo alla stella alpina, al raponzolo. A volte il destino infierisce su di noi quando meno ce lo aspettiamo. Quando tutto va bene e crediamo di essere invincibili, e la vita scorre piana e pensiamo che mai potrà capitarci nulla, ecco la sorpresa. Arriva la bestia a calpestarci con gli zoccoli. Se ce la caviamo, riprendiamo a pensare, a spostare sassi per uscire all’aperto, rifiorire. La forza della ripresa veglia nella memoria, staziona nelle origini, si nasconde nel DNA. Non quello ereditato geneticamente. Ma quello ricevuto nell’infanzia, inoculato nostro malgrado da ciò che ci e successo, dalle esperienze vissute, dai genitori avuti, dai maestri incontrati. Nel bene e nel male tutto questo ci accompagnerà come un’ombra, consiglierà alcune scelte, stimolerà decisioni, aprirà gli occhi sopravvissuti agli zoccoli del dolore e della paura.

E’ difficile per me dire qualcosa su questo libro. Sono troppo vicino a chi lo ha scritto. Rischierei goffe agiografie dell’autrice, banali simpatie paterne, improvvidi commenti a favor di parentela. Da tutto questo voglio prudentemente stare fuori, per passeggiare cauto ai bordi della radura, come un coyote sorpreso, privo di interessi e senza famiglia. Ripartire ogni mattina da quello che resta, dopo che ci e passato sul corpo non un camoscio ma una mandria di bisonti, e impresa ardua. Prima occorre aggiustare le ossa, rabberciare la carne, ricucire le palpebre a rivedere la primavera. Per il resto a darci una mano potrebbe intervenire proprio quel DNA ricevuto da piccoli. In qualcuno si fa vivo, in altri no. Ma quando appare, ci indicherà la via in altro modo, le cose si faranno vicine, dettagliate, più intime e nostre. Esprimeremo giudizi meno superficiali, meno taglienti, caustici o peggio ancora distruttivi.

Essere calpestati ci rende migliori, anche se ne avremmo fatto volentieri a meno. Restare peggiori e in buona salute forse sarebbe la cosa più giusta. Essere calpestati e sopravvivere insegna a diventare contenti. E a godere degli attimi che, quando la mandria era soltanto polvere lontana, ci parevano banali e noiosi. Insegna altresì a discernere, a distinguere, a levare il superfluo per apprezzare.

La vita diventa scolpire noi stessi: togliere per vedere, per scoprirci. Niente e inutile nel tempo di ripresa. Dopo il passaggio degli zoccoli sulle nostre ossa, il futuro si fa meno importante, la vita scorre lieve, si gode ogni minuto di questa precaria esistenza. Anche se volteggerà intorno a noi continuamente la nebbiolina dell’incertezza, non sprecheremo altro tempo. Anzi, proprio in virtù di quella nebbia vivremo intensamente, centellinando i minuti. Riprenderemo a fare le nostre cose, a sviluppare il nostro lavoro, coltiveremo le nostre passioni. Come al tempo della vita piana. Ma con un occhio diverso, interessato al dettaglio, attento al particolare che prima ci sfuggiva o trascuravamo.

Riprendere a vivere dopo una malattia grave non è guarire, ma rinascere. Si esce dal ventre del dolore e della paura, nuovi, piccoli, indifesi, sconosciuti a noi stessi. Ecco allora le sorprese impreviste. Le scoperte incredibili fornite da cose che conoscevamo bene ma che ora ci appaiono diverse, misteriose, gradevoli. Dopo il passaggio della mandria, calata la polvere, cominceremo a guardare a fondo. Non osserveremo più i colori delle foglie dipinte dall’autunno. Inizieremo a scrutare sotto, dove si nasconde la speranza. Sotto le foglie pulsa la vita minima: gli insetti microscopici, l’humus che dà vita al bosco. Chi ha passato un momento difficile, o più di uno, ora guarda lì. Sa che da quel sottosuolo tirerà fuori la forza per continuare. Quando il mondo ci crolla addosso e tutto sembra perduto, esce la speranza nascosta in ciò che vedevamo ma non conoscevamo. Avere intorno il mondo non significa conoscerlo. Per fiorire tra le rocce serve quel tipo di humus. Lo si cerca, e lo si scopre, dopo una prova ardua, un sentirsi minacciati, ai ferri corti con la vita. E utile non dimenticare, in quei frangenti, ciò che abbiamo imparato da piccoli. L’ infanzia apre sentieri, chiarisce il futuro, inventa sogni all’adulto. Al bisogno ci verrà in soccorso potando i rami che intralciano il cammino. Sposterà quei sassi che impediscono il fiorire. Il rifiorire dopo gli zoccoli, direi.

Ho recuperato salute e voglia di vivere a forza di fatiche. Fare movimento, camminare, salire sentieri significa varcare la porta di una farmacia senza tetto. Medicina a cielo aperto, cure al ritmo delle stagioni. Piano piano, senza forzare, usando la calma e la saggezza del malato tornato alla vita. Noteremo con stupore l’affetto che ci riservano quei particolari un tempo trascurati. Per chi abita in citta e non ha la natura sottomano e più difficile. Boschi, montagne, laghi e torrenti sono distanti, ma li può pensare, immaginare, percorrere con la fantasia. Sapere che un giorno potrà vederli da vicino gli sarà di conforto. Tutto serve e aiuta nella difficile ripresa dei ritmi calpestati. Anche nelle citta galoppano mandrie di bisonti a frantumare umani.

Vivere e una malattia continua, seguita dalla sua ombra: la convalescenza. Siamo malati e convalescenti allo stesso tempo e in egual misura. Fino all’ultimo respiro. Tutto quello che facciamo non serve ad altro che ad attenuare il pensiero della morte che ci sovrasta. Nel frattempo, come disse un vecchio rabbino, beviamoci qualche buon bicchiere, senza arrovellarci di continuo. Intendeva dire di non perdere le buone occasioni, ma di sfruttarle. Non è semplice. Ma rimanendo fermi ci facciamo ancora più male, diventiamo bisonti di noi stessi, ci auto-pestiamo. Nei percorsi di ripresa, quando il fragore degli zoccoli si fa lontano ma la polvere e ancora nell’aria, aiuta molto leggere, avere dei passatempi, impegnare la testa, costringerla in altri pensieri. Di momenti difficili ne ho avuti parecchi. La lettura mi ha tirato fuori dai pantani. Oserei dire che mi ha salvato la pelle. Leggere aiuta sempre. In seguito e arrivata in soccorso la scrittura. Antonin Artaud disse: «Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato, se non per uscire di fatto dall’inferno». Scrittore geniale, mori in manicomio come il collega Robert Walser.

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