Mario Baudino racconta in un saggio ricchissimo di aneddoti gli pseudonimi scelti dagli scrittori nel corso della storia della letteratura. Su ilLibraio.it il capitolo dedicato a Jane Austen, che visse in un tempo in cui “una donna che scrivesse romanzi – o qualsiasi altra cosa – era guardata con sospetto, ritenuta poco affidabile per esempio nel ruolo di moglie”

Mario Baudino, firma de La Stampa, collaboratore de ilLibraio.it e scrittore, racconta in Lei non sa chi sono io (Bompiani), un saggio ricchissimo di aneddoti, gli pseudonimi scelti dagli scrittori nel corso della storia della letteratura.

Per soldi, per snobismo, per scaramanzia, per marketing di se stessi, per non dispiacere qualcuno, per amore… Per moltissime ragioni, autori e e poeti hanno infatti cambiato i loro nomi scegliendo di firmarsi con gli pseudonimi con i quali sono poi passati alla storia.

Da Carlo Collodi (all’anagrafe Lorenzini) ad Alberto Moravia (nato Pincherle), da Joseph Conrad a Pablo Neruda, da Teofilo Folengo a Voltaire, da Umberto Saba a Pessoa a Romain Gary – nato Roman Kacew, morto dopo aver vinto un secondo premio Goncourt con un romanzo firmato Emile Ajar – fino all’immancabile Elena Ferrante, Baudino trascina il lettore in un’avventurosa ricognizione delle cause e delle conseguenze umane e letterarie della scelta di uno pseudonimo. Senza dimenticare che anche noi, oggi, ci aggiriamo in un’insidiosa selva di nickname…

mario baudino

Su ilLibraio.it, per gentile concessione dell’editore, proponiamo la prima parte del quarto capitolo

DONNE IN MOVIMENTO

Ann Radcliffe, la regina del romanzo gotico (oggi magari può sembrare un po’ prolissa, ma i suoi libri ebbero uno straordinario successo) pubblicò anonimo il primo, e in tutti gli altri si firmò come l’autrice del precedente. La sua identità non era affatto un segreto, tant’è vero che successivamente si decise a mettere in copertina nome e cognome (da sposata), ma a fine Settecento non era purtroppo considerato così elegante che una signora scrivesse di narrativa: e per di più di orrori, prepotenze, loschi figuri, castelli stregati. Lei conduceva una vita tranquillissima, tanto da scoraggiare persino un’aspirante biografa, perché non c’era davvero nulla da raccontare; e la sua fosca immaginazione letteraria, che influenzò persino il nostro Manzoni, non ebbe modo di turbarla. Ma il problema, per le donne scrittrici  nell’Inghilterra vittoriana, c’era eccome, ed è stato molto studiato e molto dibattuto nell’ambito dei gender studies.

Una donna che scrivesse romanzi – o qualsiasi altra cosa – era guardata con sospetto, ritenuta poco affidabile per esempio nel ruolo di moglie. Era, come sentenziò nel 1804 Matthew Gregory Lewis, autore di un gotico nerissimo e licenzioso, Il monaco (uscito nel 1796 peraltro anonimo) un “mezzo uomo”. Lewis aveva appena scoperto che la madre intendeva pubblicare a sua volta un romanzo, ed era uscito di senno. Le chiese perentoriamente di non farlo, prospettando scenari spaventosi per la famiglia, dallo zitellaggio a vita della sorella all’esclusione sociale, alla rovina economica. Alla fine, cuore di mamma, la povera signora Frances Maria Sewell cedette, e rinunciò. Lo pseudonimo – o l’anonimato – rappresentava un velo per salvaguardare la rispettabilità, e tuttavia, come in questo caso, non era ritenuto comunque sufficiente, almeno per le signore: non proprio un burka, però un’imposizione sociale non da poco, anche se, va sottolineato, era d’uso comune anche per i maschi, che però se ne servivano con minori problemi.

Situazione bizzarra. Nel giro di pochi anni, com’è ovvio, considerato che il romanzo stava diventando sempre più importante, anche dal punto di vista economico, ci fu chi pensò che tanto valeva, se era inevitabile, sfruttarlo al meglio. Era l’uovo di Colombo, ma ci voleva un genio per mettere in pratica un’idea del genere: ovvero, Jane Austen, la grande sovversiva della letteratura vittoriana. Per dirla con le parole dell’anglista Roberto Bertinetti, “nessuna scrittrice prima di Jane Austen era riuscita a fondere con la stessa eleganza e arguzia la parodia di formule narrative ormai logore e la satira dei rapporti di classe o di genere.” E nessuna come lei seppe usare la stessa eleganza e arguzia nei rapporti con gli editori. Dal 1811, quando pubblicò Ragione e sentimento, al giorno della sua morte, nel 1817, si firmò semplicemente “A Lady”: e, in omaggio all’uso comune, siglò ogni nuovo romanzo presentandosi come l’autrice del primo, grande successo. Solo quando uscirono postumi L’abbazia di Northanger e Persuasione, il fratello ne svelò la vera identità nella prefazione.

Non conosciamo esattamente i motivi che condussero la Austen a questa scelta: non certo quello di nascondere alla famiglia la sua attività, visto che in casa era sostenuta da tutti e anzi fu proprio il padre George a prendersi cura fin dall’inizio dei rapporti con gli editori. Posto che si comportavano allo stesso modo alcune delle scrittrici contemporanee da lei amate, può anche essere sia stato un vezzo, una piccola civetteria; o più probabilmente un beffardo omaggio ai tempi e al loro sentimento. In ogni caso, la scrittrice era chiaramente orgogliosa e persino divertita dal fatto di essere una donna (il che dopotutto traspare in modo evidente dai i suoi libri), e anche di essere diventata una sorta di oggetto misterioso per la società letteraria. Il mondo intellettuale l’aveva identificata rapidamente – non certo sulla base di analisi testuali, ma del semplice chiacchiericcio; si sapeva che era lei l’autrice di quei capolavori, ma il suo ritegno era in fondo considerato normale e in qualche modo, come diremmo oggi, non faceva notizia.

Nel novembre 1815, mentre stava per pubblicare Emma, dopo lunghe trattative editoriali condotte dal fratello, il principe reggente (e cioè il futuro Giorgio IV) la invitò tramite il bibliotecario reale nella sua residenza londinese. E le fece sapere che le era “concesso” di dedicargli il romanzo in uscita. La Austen visitò volentieri la biblioteca, ma quanto alla dedica non ne voleva proprio sapere, almeno fino a quando non le fu fatto intendere che non si trattava di una benevola concessione, per  l’appunto,  ma di un ordine: cui, da fedele suddita britannica, ottemperò con qualche riga sulla prima edizione di Emma, inviata poi a Carlton House sontuosamente rilegata. Proprio in quel libro, Mrs Elton, grande ammiratrice di Jane Fairfax (personaggio con un nome, si direbbe, non poco allusivo) cita, se pure con intenti opposti a quelli dell’autrice, due versi di Thomas Gray, da una poesia molto popolare all’epoca, Elegy Written in a Country Churchyard: “Quasi tutti i fiori nascono per brillare inosservati / E sprecare la loro fragranza nell’aria deserta.” Un’ironica dichiarazione di poetica? Dopo il successo di Orgoglio e pregiudizio la Austen scrive – è l’autunno 1813 – al fratello Francis, ufficiale di carriera in marina, in navigazione nel Mar Baltico: “Sapevo bene a cosa mi esponevo, a suo tempo, ma la verità è che il segreto si è così diffuso da essere ormai a malapena l’ombra di un segreto, cosicché credo che, quando e se il terzo [romanzo] apparirà, non ci proverò neanche a dire bugie. Cercherò piuttosto di trarne, invece che tutto il mistero, tutto il denaro che posso.”

Lei si divertiva: Charlotte, Emily e Anne, le tre sorelle Brontë, un po’ meno…

(continua in libreria…)

© 2017 Giunti Editore S.p.A. / Bompiani

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