“Leggevo Frankenstein, me lo ricordo benissimo, il giorno in cui nello specchio dietro le cabine, al mare, mi scoprii una faccia da grande…”. La scrittrice Ilaria Gaspari ha riletto per ilLibraio.it il romanzo di Mary Shelley, che l’aveva segnata all’inizio dell’adolescenza

Il mostro che siamo tutti. O sul rileggere da adulti Frankenstein di Mary Shelley

Quando ho letto per la prima volta Frankenstein, nell’estate dei miei undici anni, non avevo la più pallida idea di molte cose della vita, e soprattutto, come credo succeda a quasi tutte le bambine e i bambini in procinto di affacciarsi all’adolescenza, guardavo con turbolento stupore i cambiamenti del corpo, incontrollabili e violenti; irreversibili, stupefacenti, improvvisi motivi di vanto e di terrore. Crescere in altezza di qualche centimetro nel giro di pochi mesi, per esempio, è una stranezza inconcepibile a pensarci quando si è ormai smesso di crescere da un pezzo e il tempo ci allunga solo capelli e artigli; allora invece era tutto quanto il corpo che cresceva, e le scarpe a un certo punto andavano improvvisamente piccole, e allora con fierezza si poteva comunicare a tutti il nuovo numero. Che per me, proprio intorno agli undici anni, si fece improvvisamente alto, tanto da superare quelli di madri, zie e nonne. Andavo orgogliosa dei miei piedoni incongrui, che promettevano altezze imponenti e statuarie, ricordo, nell’estate dei miei undici anni; ne andavo orgogliosa e non sapevo che le promesse sarebbero state disattese, e leggevo Frankenstein mentre scoprivo che anche il naso può crescere, a undici anni, prima del resto. Leggevo Frankenstein, me lo ricordo benissimo, il giorno in cui nello specchio dietro le cabine, al mare, mi scoprii una faccia da grande, una faccia seria con un naso di colpo troppo lungo, che vedevo per la prima volta; certo anche perché prima di allora non mi ero praticamente mai guardata allo specchio. Quell’estate, leggendo Frankenstein, piangevo calde lacrime sulla sorte del mostro.

Non avevo più ripensato con tanta intensità alla pura bizzarria di quella stagione di cambiamenti fisici indecifrabili: ho riflettuto molto sulla sua poesia dolorosa, sulla bellezza triste e piena di promesse della fine dell’infanzia – ma mai, prima di rileggere Frankenstein, mi era venuto in mente il senso accecante della sua semplice, cristallina assurdità. Ci ripenso oggi, invece, perché rileggendolo realizzo all’improvviso che questo è proprio il libro di un’adolescente, e che anche in questo sta la sua bellezza lunatica. È un libro capriccioso come un puledro, a tratti quasi stolido, altre volte invece abbagliante. È un romanzo che – paragonabile in questo forse solo a Dracula e, direi, a It – riesce in un’impresa rarissimamente compiuta al di fuori dell’antichità: creare un mito.

E un mito che nasce proprio dalla fantasia di un’adolescente.

Infatti questo libro è nato da un gioco. Quando Mary Shelley scrisse Frankenstein, aveva appena 19 anni; ed è vero che a 19 anni, nel 1816, non era insolito essere una donna sposata, come infatti di lì a qualche mese sarebbe stata lei; ma è vero anche che avere diciannove anni significa che non è passato poi molto tempo dal momento in cui ancora si cresceva in altezza. E questo ovviamente vale anche se si è in procinto di sposarsi per giunta (e dopo crudeli peripezie) con un poeta come Percy Bysshe Shelley, e si passa un’estate in una villa sul lago di Ginevra insieme a Lord Byron, a Claire Clairmont (che era la sorellastra di Mary e l’amante di Byron) e a un altro amico, il dottor John William Polidori, che da quella vacanza tornò con l’idea per un racconto, Il vampiro, che sarà fondamentale perché nasca il mito di Dracula – ma questa è un’altra storia.

Il caso volle che quell’estate del 1816 il tempo, sul lago, fosse tremendo. Piogge, fulmini, saette e temporali continui costrinsero gli amici a passare molto tempo chiusi in casa, nella bellissima villa Diodati che avevano preso in affitto.

E per intrattenersi, questi ragazzotti in vacanza che erano anche fra gli artisti più geniali del loro tempo, mentre fuori pioveva leggevano e si raccontavano storie di spettri e di paura. Dovevano essere tutti piuttosto impressionabili: raccontò poi Polidori che Shelley, mentre leggevano tutti insieme Coleridge, ebbe un’allucinazione – vedeva una donna con occhi al posto dei capezzoli – che gli diede quasi una crisi isterica. Ma fuori continuava a piovere: decisero che ognuno si sarebbe cimentato nella scrittura di un racconto di paura. Tutti ci si buttarono con entusiasmo, tranne la povera Mary, che non aveva idee. Finché una notte, in quello strano clima elettrico che doveva essersi creato a Villa Diodati, non ebbe un incubo terribile, e insieme, una grande idea.

villa diodati

E quindi Frankenstein è nato da un gioco e dal sogno di un’adolescente – quale maniera di venire al mondo potrebbe essere più adatta, per un mito?

Proprio in questo continuo spalancarsi a fantasie inconsce e inconfessabili sta il suo fascino: me ne accorgo rileggendolo ora, mentre da ragazzina sentivo solo una forza sinistra e perturbante, ma imprecisata. Ci sono lunghi passaggi un po’ noiosi e convenzionali – quelli sui tormenti che Victor Frankenstein, il creatore del mostro, si infligge per senso di colpa – che da piccola, lo confesso, saltavo; proprio come di un sogno, le parti più noiose si dimenticano in fretta. Oggi mi accorgo che proprio quei passaggi, però, di tanto in tanto, come nuvole che si squarciano, si aprono all’improvviso a scene quasi inconsapevoli della loro forza, eppure sconvolgenti: come l’attimo in cui Frankenstein, che sta costruendo una donna mostruosa perché faccia compagnia al suo mostro che lo ricatta, sentendosi all’improvviso spiato proprio dal mostro in trepida attesa, si rende conto dell’enormità di quello che sta facendo, e fa a brandelli la donna mezzo costruita. C’è un’idea affascinante e blasfema, magnetica e arcaica; Victor Frankenstein, orfano fin da bambino di una madre amatissima, come Orfeo – come la letteratura – alla fin fine sta solo cercando di cimentarsi nell’impresa più antica e più fallimentare del mondo: sconfiggere la morte. Solo che, inaspettatamente, ci riesce; da questa incredibile vittoria, però, non può nascere un gran bene, perché le leggi della natura sono state pervertite, perché un desiderio troppo smisurato e insolente è stato esaudito, e questo di solito non porta conseguenze positive. Ma forse – me ne rendo conto ora – tutta la devastazione che nasce da questa impresa non è causata dall’impresa stessa; ma solo dallo spavento che prende Victor di fronte al suo successo. Il mostro, che diventando un mito aveva pur bisogno di un nome, e si è preso a forza quello del suo creatore (di cui in fondo non si ricorda quasi nessuno, quando si parla di Frankenstein), se fa paura è solo perché quello scellerato che se l’è inventato non ha saputo volergli bene, l’ha respinto, è rimasto atterrito di fronte all’enormità di quel che si era immaginato. Proprio come, qualche volta, ci si sveglia atterriti da un sogno grandioso, che magari ci ha raccontato qualcosa di noi.

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, classe ’86, si è diplomata in Filosofia alla Scuola Normale di Pisa e ha debuttato nel romanzo con Etica dell’Acquario (Voland).
Qui i suoi articoli per ilLibraio.it.

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