Su ilLibraio.it un capitolo da “Neppure il silenzio è più tuo” di Aslı Erdoğan. Nel libro la scrittrice e giornalista diventa emblema della resistenza femminile e grida gli ideali che animano la propria lotta intellettuale e assoluta

Nell’agosto 2016, a seguito della sua attività di scrittrice che crede nella libertà, Aslı Erdoğan è stata arrestata e ha trascorso 136 giorni nella prigione di Bakırköy. Il suo unico delitto? Aver osato rivendicare dalle colonne di un giornale pro-curdo la libertà di opinione e di denuncia degli orrori del governo. Neppure il silenzio è più tuo, in libreria per Garzanti, raccoglie alcune delle sue pagine più belle nelle quali la scrittrice e giornalista diventa emblema della resistenza femminile e grida gli ideali che animano la propria lotta intellettuale e assoluta.

Leggendo Neppure il silenzio è più tuo il lettore incontra una donna sola per le strade deserte di Istanbul. Sta cercando di tornare a casa, ma non riesce più a orientarsi. Le vie un tempo conosciute le sembrano deformate e irriconoscibili. Al suo fianco un cane randagio che, fiutando il suo smarrimento, la guida fino a un incrocio. Adesso tocca a lei scegliere la strada da imboccare, nessuno può indicargliela: può assecondare il silenzio che domina ovunque o può abbatterlo con la forza delle parole.

Quella donna è Aslı Erdoğan che, all’alba del 16 luglio 2016, all’indomani del cruento tentativo di colpo di stato e nonostante l’imminente repressione dei diritti civili in Turchia, decide di non cedere all’indifferenza, ma di far sentire la propria voce. Decide di non avere paura di spezzare quel silenzio assordante, simbolo di un dolore troppo grande da ignorare. Perché non può e non vuole far finta di niente di fronte alla violenza cieca di un governo fin troppo abile nel mettere a tacere i testimoni scomodi. E sa bene che c’è solo un modo per farlo: guardare negli occhi una realtà indicibile alla ricerca di quelle parole che possano generare un grido di indignazione. Il suo è un grido di denuncia contro la falsità del potere che priva i cittadini dei loro diritti.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto

Un viaggio invernale

Esco per le strade dopo che la folla si è dispersa, nel «buio dolente» della sera… in città è stata tagliata l’elettricità, cammino lungo strade che ho l’impressione di non aver mai visto prima. Strade, vie, parallele, passaggi laterali… incroci che promettono un nuovo inizio, uno smarrimento completamente diverso, una notte altra… La solitudine trasforma tutte le voci, le assorbe in sé, risuona nel più intimo, più a lungo, più in profondità. Come se in mezzo a tutte le voci del mondo udissi una voce rimasta in silenzio da tempo, la adottassi e, in sua compagnia, attraversassi strade che ormai non esistono più…

Cammino, cammino, verso la vita, torno indietro… una notte di scrittura, notte silenziosa di un dolore personale che non vuole incontrarsi con le parole… due fotografie. una scattata nella primavera del 2006 presso il giornale «agos». Hrant mi aveva ceduto la sua scrivania, è in

piedi al mio fianco, un bicchiere di tè bevuto a metà. Due fotografie che hanno accompagnato l’inverno più lungo della mia vita, un viaggio invernale non ancora concluso.

Una notte di scrittura… pile di giornali, libri a portata di mano, frasi sottolineate… un oceano di posacenere. L’odore di caffè, antidolorifici… repliche, risposte, discussioni che continuano a ronzarmi in testa… Vuoti fogli bianchi avvolti in un silenzio tombale. esattamente dieci anni fa, la madre di un condannato, con la quale ho potuto parlare grazie a un interprete curdo, puntando gli occhi dritti nei miei ha detto: «prima di separarci, dimmi qualcosa che mi dia speranza, figliola». C’era tutto nel suo sguardo, offesa e comprensione, lo scetticismo proprio delle persone ingannate decine di volte dalla volontà di credere, amicizia, affetto, tutto tranne la speranza… Sembrava mi guardasse così come mi guardano i vuoti fogli bianchi, quasi guardasse uno specchio…

Il (vecchio) palazzo di giustizia di Beşiktaş, nella mia memoria dai colori sbiaditi, carico di ricordi densi e silenziosi come pietre, uno più pesante dell’altro. Le prime ore del mattino. molto prima dell’udienza, tre donne sole non riescono a trovare né il luogo della manifestazione né l’entrata del palazzo di giustizia; sono ferme a un incrocio, l’una a fianco all’altra, indecise sulla strada da prendere. (La prima udienza del processo che in otto anni aveva cambiato sei procuratori, fissato solo adesso, otto anni dopo la prima decisione di arresto della polizia.) Un uomo appariscente in giacca e cravatta ci passa accanto emanando una densa nuvola di dopobarba. Ci nota, nota forse il nostro tragico silenzio.

Gli cade l’occhio sulla piccola fotografia che portiamo su una spilla appuntata al colletto…

«Chi è?» chiede con una voce piena.

«Quell’armeno che hanno ammazzato?»

Con la mia solita rigorosità, prima ancora che mi venga in mente di interrogare le sue intenzioni, mi metto a spiegare: «Sì, il giornalista Hrant dink…».

Non ascolta, non rallenta neppure, dopo qualche metro si volta, lancia due parole dagli angoli della bocca: «Ben fatto!». Continua per la sua strada con passi duri che risuonano tutt’intorno, come se stesse combattendo eroicamente contro un nemico invisibile… noi tre rimaniamo impietrite, in silenzio, ci tremano le labbra. dopo un po’, la più «esperta» riesce a parlare: «Dev’essere un poliziotto in borghese!».

Siamo spaesate, riusciamo a trovare consolazione nel fatto che questa frase, che ci si è appiccicata addosso come uno sputo catarroso, sia una replica inculcata dal governo, la battuta di un copione. in silenzio, vergognandoci, cerchiamo la folla, i nostri amici, gli amici di Hrant, questa volta li troviamo.

I ricordi a volte chiedono di essere raccontati, ripetuti; a volte, invece, chiedono un silenzio duro come pietra… All’entrata di un tribunale tre donne, fianco a fianco, hanno portato quel silenzio per anni, come si porta un crimine compiuto insieme… Otto anni fa, la sera di un altro 19 gennaio, la sera di un giorno in cui migliaia di persone avevano camminato per ore, in silenzio, fianco a fianco, fino al cimitero in un profondo dolore, sotto un sole invernale che sembrava un miracolo, avevo scritto: «Abbiamo lasciato dietro di noi una profonda traccia invisibile». Camminiamo, continuiamo a camminare, e la traccia che lasciamo non è affatto invisibile!

Dopo una settimana di minacce, di incursioni al giornale, di insulti, di «oh ecco, anche voi con “Charlie”», quest’ottimismo, questa speranza… Serve un sole invernale, in quel giorno di funerale, un altro miracoloso sole invernale che splenda ancora, che ci scaldi tanto da bastarci per tutti gli inverni a venire…

(continua in libreria…)

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