La poesia, si sa, è un rischio e un antidoto: leggerla, oggi, “un gesto di sorridente sovversione”. Su ilLibraio.it la prefazione di Nicola Crocetti a “Dimmi un verso anima mia – Antologia della poesia universale” (che ha curato con Davide Brullo): dai Veda ai poeti odierni, dagli antichi inni egizi a Eugenio Montale, Seamus Heaney e Paul Celan, dai salmi biblici e da Saffo fino a Ezra Pound, Yves Bonnefoy e Mario Luzi…
Non era mai stata tentata finora, con queste dimensioni, un’antologia della poesia universale, dai Veda ai poeti odierni, dagli antichi inni egizi a Eugenio Montale, Seamus Heaney, Paul Celan, dai salmi biblici e da Saffo fino a Ezra Pound, Yves Bonnefoy e Mario Luzi.
Nicola Crocetti, traduttore e fondatore di Crocetti Editore nel 1981 e della rivista Poesia nel 1988, tenta ora l’impresa accompagnato da Davide Brullo, fondatore della rivista letteraria digitale “Pangea”, poeta e direttore della casa editrice Magog.
Il risultato, in libreria per Crocetti, è l’ambiziosa (1500 pagine) Dimmi un verso anima mia – Antologia della poesia universale.
Il volume è presentato come “un salto nella meraviglia lirica di ogni paese e di ogni tempo, di un viaggio nella sorpresa e nello smarrimento”, “una sorta di Mille e una notte della lirica mondiale”. Non una lettura per gli “esperti”, ma per gli ispirati; per quelli che tra le maglie di un sonetto del Seicento o tra gli oscuri canti di un bardo islandese, tra le giaculatorie di uno sciamano dei deserti e negli snodi poetici di un trovatore di Provenza, trovano un conforto di curiosità, hanno il coraggio di sondare la propria anima.
La poesia, si sa, è un rischio e un antidoto: leggerla, oggi, un gesto di sorridente sovversione.
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo la prefazione, dal titolo “In difesa della poesia indifesa”:
“In difesa della poesia indifesa”
di Nicola Crocetti
L’uomo ha sempre scritto poesie. Nelle poche migliaia di anni della sua storia e negli oltre centomila idiomi parlati e scritti da quando ha articolato il linguaggio, miliardi (1) di individui hanno prodotto miliardi e miliardi di poesie. E anche oggi, nelle settemila lingue superstiti (che si riducono drasticamente ogni anno che passa – 2), tutta la popolazione mondiale, in incessante e smisurato aumento e grazie anche a un’acculturazione senza precedenti, continua a produrre una quantità incalcolabile di versi.
Quante poesie saranno state scritte nella storia umana? Un numero incommensurabile, il cui unico paragone possibile è forse il numero di stelle della nostra galassia. Ma come le stelle visibili a occhio nudo non sono che un’infima parte dell’universo sconfinato, così le poesie che a ciascuno di noi è dato conoscere nel tempo della sua vita sono una manciata di sabbia sugli arenili sterminati del nostro pianeta.
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La gran parte delle poesie tramandate a memoria o scritte dagli uomini nella loro storia sono scomparse nei fiumi dell’oblio o sono state inghiottite nei buchi neri degli incendi delle biblioteche e delle devastazioni di città e nazioni. Eppure in moltissimi continuano, ostinatamente, a scrivere versi, che spesso nessuno o pochissimi leggeranno. Decine di migliaia di piccole e grandi case editrici in tutto il mondo, con altrettanta ostinazione, continuano a pubblicare libri di poesia, pur sapendo che ben pochi li acquisteranno. Lo stesso si adoprano a fare legioni di traduttori, molte decine di migliaia di riviste, a stampa o informatiche, molte migliaia di compilatori di antologie, in tutte le lingue oggi sopravvissute.
E molti milioni di persone affidano i loro versi a un’altra galassia sconfinata: quella del web. La rete sembrerebbe aver risolto il problema individuale della pubblicazione. Oggi chiunque può mettere on-line le proprie poesie nella speranza che qualcuno le legga. Ma è come affidare un messaggio in bottiglia alle acque di un oceano sperando che approdi su qualche riva e che qualcuno lo raccolga. È un’illusione. Se si digitano le parole “poesia” o “poetry” su un qualunque motore di ricerca, si ottengono centinaia di milioni di pagine contenenti miliardi e miliardi di poesie.
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Dunque, con incrollabile pervicacia, una parte cospicua dell’umanità alfabetizzata continua a scrivere versi e a cercare di farli conoscere ai propri simili. Perché? Primo Levi, ne L’altrui mestiere, enumera nove motivi (senza escluderne altri) riguardo a questa diffusa compulsione a scrivere: perché se ne sente l’impulso o il bisogno; per divertire o divertirsi; per insegnare qualcosa a qualcuno; per migliorare il mondo; per far conoscere le proprie idee; per liberarsi da un’angoscia; per diventare famosi; per diventare ricchi; infine, per abitudine. Naturalmente, ciascuno potrebbe aggiungere le proprie ragioni personali, e anche questo elenco si allungherebbe a dismisura.
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Perché, dunque, questa antologia, che spazia dall’antichità ai giorni nostri? E davvero la poesia ha bisogno di essere difesa? E contro chi? Credo che chiunque abbia scritto o scriva versi lo sappia molto bene: dall’indifferenza del mondo per questa forma d’arte. Dall’ignoranza dilagante e dalla miseria culturale degli uomini politici e di potere. Dall’impotenza dei critici letterari, anche di quelli seri e preparati, sovrastati come sono dalla mole immensa delle pubblicazioni, e scoraggiati da giornali e riviste che concedono loro spazi ridottissimi. Dalla corruzione sistemica e dallo sfacciato accumulo di ricchezze ai danni dei meno abbienti, dal disinteresse di molti nei confronti del prossimo. Da un mondo che con criminale incoscienza corre verso la catastrofe. A che pro, allora, occuparsi o preoccuparsi della poesia?
Forse perché se in così tanti la scrivono è necessaria. E forse l’unico modo per difenderla è quello di farla arrivare al maggior numero possibile di persone, cercando di ribadirne l’importanza e la bellezza. Oltre che continuare caparbiamente a scriverla, continuare tenacemente a renderla pubblica, a diffonderla, a farla conoscere. Come si fa in molte scuole e università, e come fanno anche molte persone innamorate: innamorate di altre persone o della poesia stessa.
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È vero che troppi, ancor oggi, continuano a sostenere, anzi, a enfatizzare, l’inutilità della poesia in un’epoca di progresso scientifico e tecnologico senza precedenti. A costoro si potrebbe ribattere con i versi antichi e attuali di Orazio, che teorizza con forza l’immortalità della poesia quando afferma di aver eretto con i suoi componimenti un monumento duraturo nel bronzo. Oppure con le appassionate parole con cui il poeta inglese Percy Bysshe Shelley si oppose, nella sua Difesa della poesia, al virulento attacco dell’amico T.L. Peacock, che tale inutilità propugnava: la poesia, affermava Shelley, è la forma più elevata di immaginazione creativa, nella quale affondano le proprie radici le più autentiche istituzioni umane; essa è “qualcosa di divino, il centro e la circonferenza della conoscenza, è ciò che comprende tutte le scienze e a cui tutte le scienze fanno riferimento”.
Pur nata da una forte passione e da una lunga, per così dire, militanza sul campo, non sarà certo questa antologia – una tra mille – a cambiare di un ette la degradata situazione della poesia in Italia. Dimmi un verso, anima mia vuol essere solo un’attestazione, ma anche un’istanza alle istituzioni e ai numerosi potenziali distratti mecenati di questo Paese perché si destino dal loro torpore e rinverdiscano i fasti di una tradizione che fu gloriosa ma è disusata, e che rese l’Italia modello di cultura e di poesia nel mondo.
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Uno dei compilatori di questo florilegio vanta origini greche, e, inevitabilmente, alle sue origini paga pedaggio. L’inestimabile privilegio di conoscere questa lingua inestimabile – checché ne pensino i neobarbari eurocrati brussellesi, che l’hanno degradata a “lingua minoritaria” (“minoritaria” la lingua di Omero!) –, si è sempre accompagnato, per me, al dovere di condividere con quanti più altri possibile la sua letteratura e i poeti greci contemporanei. Perché, come tutti i Paesi che molto hanno patito per conflitti, occupazioni straniere, guerre civili – Russia, Spagna, Polonia, Irlanda, solo per dirne alcuni – la Grecia contemporanea ha prodotto una grande letteratura e un cospicuo numero di grandi poeti. Perché – come fieramente afferma il poeta greco-cipriota Kostas Mondis – “pochissimi ci leggono, / pochissimi sanno la nostra lingua, / in compenso però scriviamo in greco”. Le mie origini, dunque, giustificano un lieve sbilanciamento di questa antologia verso la Grecia e i suoi poeti, e l’indulgente intendimento dei lettori lo perdonerà.
Ugo Foscolo diceva che la prima antologia di poesie è il cielo stellato. Per osservare più stelle di quante se ne possano vedere a occhio nudo occorre un telescopio. Da astronomo dilettante, il mio strumento privilegiato, il mio telescopio personale, è stata la mia rivista “Poesia”. Che in 35 anni di vita ha pubblicato 60 mila poesie di 4.000 poeti da quaranta lingue. Senza contare le migliaia di libri che mi ha costretto a leggere – per forza o per amore, per dirla con Giovanni Giudici –, e le decine di migliaia di manoscritti e di proposte ricevuti con la posta cartacea ed eletronica, per non parlare di quelli accessibili sul web. Perché questa scelta di dedizione e di servizio alla poesia? Perché la lunga avventura che è stata la mia rivista “Poesia”? Per amore, per passione. Perché immergersi nelle opere dei grandi autori equivale a restare immedicabilmente contagiati dalla loro passione.
Chiunque si occupi in qualche modo di poesia ha bisogno di un maestro. Il mio è stato, inevitabilmente, un poeta greco, Ghiannis Ritsos. Lo conobbi nella primavera del 1970, durante un mio viaggio avventuroso in Grecia. Lui era appena stato rilasciato dal campo di prigionia per detenuti politici nell’isola di Leros, contiguo a un famigerato manicomio. (Ne dà conto un bel romanzo di Simona Vinci La prima verità – 3)
Arrestato ad Atene la notte del colpo di Stato dei colonnelli, il 21 aprile 1967, Ritsos era stato deportato prima nell’isola-lager di Ghiaros, poi in quella di Leros, dove aveva contratto un cancro. Per timore che morisse in prigionia e diventasse un martire, il regime militare lo aveva fatto operare ad Atene e lo aveva poi relegato, sotto stretta sorveglianza, a domicilio coatto nell’isola di Samo, dove la moglie era medico condotto. Fu lì che andai a trovarlo una mattina di aprile del 1970.
Al tassista, una spia della polizia, dissi che andavo dalla dottoressa Ritsu per una visita medica. Bussai alla porta di casa, mi aprì lui stesso, stupito che il militare di guardia non mi avesse fermato: “Sarà andato a pisciare’, commentò Mi ospitò per tre giorni, ed ebbe così inizio un’amicizia durata vent’anni, fino alla sua morte, nel 1990.
Durante i miei numerosi viaggi in Grecia Ritsos mi ospitava nella sua casa di Atene o in quella di Samo, dove trascorrevamo lunghe ore a parlare di poesia, a raccontarci; oppure lui a scrivere e io a tradurre, quasi sempre fino a notte fonda. Aveva avuto una vita difficile e travagliata, e lo scrigno della sua memoria traboccava di una folla di ricordi, eventi, persone, sofferenze, passioni, letture forsennate, delusioni, di una grande saggezza e di molta poesia. Apriva volentieri e con generosità questo scrigno per condividerne le gemme. Era un maestro prodigo non solo con gli amici: passava lungo tempo a leggere le numerose raccolte che gli inviavano i giovani poeti, ai quali rispediva i loro manoscritti con osservazioni vergate nella sua bella grafia bizantineggiante. Con lui, tutto si trasformava in lezione di vita e di poesia. La stessa cosa avveniva durante i suoi sette viaggi in Italia, quando era lui mio ospite, e scorrazzavamo in lungo e in largo per la penisola visitando città d’arte e musei. Viaggi che fruttificavano decine e decine di poesie, poi comprese in tre raccolte adunate sotto il titolo di Trittico italiano.
Nei dieci anni di detenzioni e persecuzioni, Ritsos aveva subìto sofferenze indicibili, per non dire dell’ostilità e delle calunnie di altri poeti, che al contrario di lui avevano trovato comodo rifugio sotto l’usbergo dei corrotti governi monarchici e delle spietate giunte militari, ricevendone benefici e prebende, senza peraltro farsi scrupolo di diffamare chi, come lui, si trovava deportato nelle isole-lager. L’esimio grecista americano Kimon Fiar – che ha tradotto in inglese tutti i maggiori poeti greci contemporanei –,negli ultimi anni della sua vita mi raccontò che i “grandi”, famosi e sfaccendati poeti che facevano comunella nei caffè di Kolonaki – il “quartiere signorile” di Atene –, raccomandavano a lui, giovane neofita delle lettere: “Non occuparti di Ritsos, non vale la pena, è un insignificante poeta comunista’. Poco importava che quel poeta stesse scontando, per l’ideale di un mondo più giusto, carcere, persecuzioni, e il bando delle sue opere, una delle quali fu bruciata davanti alle colonne del tempio di Zeus Olimpio. “Ora ho capito” mi disse Friar “che lui era il più grande di tutti.”
La generosità era uno dei tratti distintivi di Ritsos. Nei vent’anni della nostra amicizia non l’ho mai sentito pronunciare una parola di esecrazione o un’invettiva nei confronti dei suoi persecutori e avversari politici. Come farà anni dopo Nelson Mandela, divenuto amico di uno dei suoi carcerieri, anche Ritsos accolse nella cerchia ristretta dei propri amici e sodali un suo ex torturatore.
Oltre all’immenso poeta di Monemvasià, altri due giganti della letteratura greca contemporanea mi sono stati maestri: l’universalmente noto e tradotto Kavafis e Nikos Kazantzakis, della cui opera smisurata merita che si ricordi almeno la sua monumentale Odissea (33.333 versi), prosecuzione dell’epos omerico, da me tradotta in italiano.
Se alcuni di questi testi possono apparire scontati, è perché sono sembrati, a me e a Brullo, imprescindibili, mentre per altri poeti assai noti abbiamo cercato di scegliere testi meno conosciuti. D’altronde, la cosa più scontata di ogni antologia è che essa riflette i gusti personali e le predilezioni dei compilatori. Così, anche questa dà conto degli autori e dei testi che hanno avuto importanza e significato particolari nella nostra vita.
Pensare di poter racchiudere tutta la poesia di una vita e dell’universo in una piccola antologia è come volere – agostinianamente – travasare il mare con un secchiello. Nondimeno, ognuno che in qualche modo si occupi di poesia, o abbia fatto di questa la missione della sua esistenza, ha il dovere di tentarne, come può, una difesa. Certo debole, forse inutile, forse disperata, perché condotta con armi spuntate contro le forze preponderanti dell’incultura e dell’indifferenza. Ma necessaria.
Un personaggio dell’Odissea di Kazantzakis, Centauro, alla vigilia di una battaglia cruciale contro un esercito soverchiante, dice al re di Itaca: “Ulisse, domani noi non possiamo combattere questa battaglia”. “Perché?” domanda Ulisse. “Perché è una battaglia persa in partenza” dice Centauro. “Per questo dobbiamo combatterla” risponde Ulisse.
n.c.
1 D.C. Laycock – P. Mühlhäusler, “Language engineering: special languages”, N.E. Collinge (ed.), in An Encyclopaedia of Language, London / New York, Routledge 1990.
2 Dati dell’Unesco.
3 Simona Vinci, La prima verità (Einaudi, Torino 2016.)
L’APPUNTAMENTO A BOOKCITY MILANO – Venerdì 17 novembre, alle 17.30, la Sala Grechetto della Biblioteca Sormani di Milano, ospita l’incontro In difesa della poesia indifesa, con Davide Brullo e Nicola Crocetti.
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