Nel libro “La vacanza degli intellettuali – Pasolini, Moravia e il Circolo di Sabaudia” (di cui proponiamo un estratto, in cui si parla di Bernardo Bertolucci e Ian McEwan), Paolo Massari ricostruisce il momento in cui Sabaudia diviene uno dei poli d’avanguardia dell’arte, del cinema e della letteratura italiana, una scuola platonica e un circolo letterario: un punto focale da cui osservare la storia culturale del dopoguerra
“Ho scelto Sabaudia come luogo dello spirito per i miei riposi forzati e le mie ansie di lavori futuri, sogni furiosi che mi tengono ancorato al mondo”.
Con queste parole Pier Paolo Pasolini, nel documentario La forma della città, raccontava il suo rapporto con Sabaudia, dove insieme ad Alberto Moravia aveva comprato una casa. Un edificio squadrato sul lungomare, a pochi chilometri dalla città di costruzione razionalista voluta da Mussolini nel progetto di bonifica dell’Agro pontino.
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Quel luogo, prima simbolo dell’intraprendenza del regime, diventa pochi anni dopo il ritrovo prediletto dell’intellighenzia italiana: così è possibile incontrare Moravia che fa la spesa in pescheria, Bernardo Bertolucci e Ian McEwan che discutono la sceneggiatura di un film mai realizzato, Laura Betti a passeggio con Dario Bellezza e Renzo Paris, Jean Genet a caccia di firme su una petizione per la Palestina…
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Ma non sono solo gli intellettuali a scegliere quei luoghi per le loro vacanze. Presto il litorale diventa meta di villeggiatura anche della borghesia romana: Sabaudia e il Circeo appaiono tra le pagine mondane delle riviste scandalistiche ma, soprattutto, diventano il teatro oscuro di uno dei delitti più efferati del secondo Novecento, destinato a imprimersi nella coscienza del paese.
Paolo Massari (romano classe ’88, e autore di Letteratura e nuovi media – Come la scrittura cambia dimensione e del romanzo Tua figlia Anita) in questa storia ha un punto di vista privilegiato: il suo prozio è stato il fondatore della biblioteca della città, ha incontrato i protagonisti di questa storia e ha conversato con loro tra i portici del bar Italia.
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Guidato da documenti d’archivio e romanzi, e aiutato dalle parole di testimoni illustri come Dacia Maraini, Alain Elkann e Edoardo Albinati, nel libro La vacanza degli intellettuali – Pasolini, Moravia e il Circolo di Sabaudia, Massari, che ha conseguito il dottorato di ricerca in Italianistica alla Sapienza, ricostruisce il momento in cui Sabaudia diviene uno dei poli d’avanguardia dell’arte, del cinema e della letteratura italiana, una scuola platonica e un circolo letterario: il punto focale da cui osservare la storia culturale del dopoguerra.
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:
(…) Si sa poco, della loro coabitazione artistica. Un’accoppiata esotica, pensando a entrambi non è un’associazione che viene in mente in maniera così “automatica”: da un lato Bertolucci, il suo corpo imponente, dall’altro la figura esile, molto inglese, di McEwan, i grandi occhiali, il volto che sembra sempre pronto alla battuta. Sabaudia non è in vacanza, i due si ritrovano in inverno, quando il lungomare è deserto, solo per loro, con il Circeo che incombe. Ha qualcosa di filmico anche l’idea stessa dei due a lavorare insieme a un film. Curioso, per certi versi, che Bertolucci si sia rivolto a uno scrittore non italiano per la sceneggiatura da un romanzo di Moravia ambientato a Capri, 1934. E qui c’è un’altra coincidenza buffa, visto che si tratta dell’anno della fondazione di Sabaudia.
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Proprio a Sabaudia, sempre ripreso da Paolo Brunatto, Bertolucci parla con Moravia. Sono seduti a un tavolo all’aperto, forse su una terrazza. Entrambi in controluce, i volti sembrano più scuri. Dietro Moravia, all’orizzonte, si nota una villetta moderna, l’unica finestra che si vede ha la tapparella azzurra abbassata. Bertolucci sta raccontando di un personaggio che sembra ingenuo, manipolato da una coppia di cui poi diventa lui stesso il manipolatore. Moravia interrompe con pacatezza, chiede di un certo dettaglio e l’altro, cercando di stoppare dolcemente la curiosità, risponde con la solita ironia: «Vuoi sapere proprio tutto», e intanto continua a spiegare. Forse i due stanno parlando proprio del lavoro su 1934, forse no, ma bastano pochi secondi per cogliere l’intesa, la grande confidenza. D’altra parte, nel 1970 Bertolucci ha già diretto Il conformista, tratto sempre da un’opera di Moravia.
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E proprio a Moravia è legato uno dei primi ricordi di Bertolucci a Sabaudia, appena diciassettenne, nel 1958. A quel tempo, il mito di Sabaudia è lontano e la città è ancora mal considerata. Moravia chiede al padre di Bernardo, il poeta Attilio, di dargli un parere su una casa tra le dune che vorrebbe comprare – ben prima dell’acquisto con Pasolini. Quel giorno, in macchina, c’è anche il giovane Bernardo: la guida «a balzelloni» di Moravia gli fa sentire di essere «sulla diligenza di Ombre rosse». L’acquisto, poi, non va a buon fine, nessuno è convinto di quella casa. La gita termina abbastanza tristemente, con un caffè in paese, e Bertolucci ricorda ancora il distacco di suo padre e di Moravia: «Si guardavano attorno inorriditi, offesi da quello che si chiamava allora lo “stile fascista”. Io imparavo. Erano passati solo tredici anni dalla fine della guerra».
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Ambientato appunto nell’anno che fa anche da titolo, 1934, il romanzo di Moravia su cui lavorano Bertolucci e McEwan, guarda da vicino ai tormenti e alle domande di Lucio, un giovane antifascista che incontra a Capri Beate, la donna tedesca alla quale affida tutti i suoi dubbi esistenziali e politici. Gli anni trenta, dice Moravia, sono stati cupi e noiosi prima dell’alleanza con Hitler, e pericolosi poi, con il rischio continuo di incappare nelle guardie per cose da niente: cercare di salvare un gatto arrampicato su un muro, o anche solo fermarsi davanti a una vetrina per sistemare la cravatta, “E lei di questi tempi si aggiusta la cravatta?”.
Moravia ricorda anche la tristezza, la solitudine degli intellettuali. Racconta del caffè Aragno a Roma, dove i delatori di regime provavano ad agganciarti parlando pretestuosamente di Croce; o di un altro locale storico di Firenze, le Giubbe Rosse, dove si respirava un silenzio che definisce ermetico.
È da questo retroterra che Bertolucci e McEwan devono partire per scrivere la sceneggiatura di 1934. Parlano, si confrontano a lungo, quando non piove escono a camminare, dice Bertolucci, «come certi intellettuali dei film della Nouvelle Vague». Ragionano sul taglio da dare, parlano e parlano, ma c’è qualcosa che non torna. Bertolucci, che ha già la testa su altro, vorrebbe fare di 1934 una commedia, eppure i due non trovano la chiave. Quel lavoro comune, alla fine, non vede mai la luce. McEwan torna in Inghilterra, e Bertolucci comincia di lì a poco lavorare a L’ultimo imperatore, che esce nel 1987.
Ripensando a quel progetto mancato, lo scrittore inglese, che ricorda ancora con affetto Bertolucci e quel loro tentativo, dice che il regista si aspettava «un segretario della sua immaginazione», espressione felice e allo stesso tempo dolente, perché è in effetti quasi impossibile, per chiunque, vestire i panni di quel “segretario”. Soprattutto se sei Ian McEwan e hai già di tuo tanta immaginazione da gestire, a cui fare da segretario. A partire da 1934, lo scrittore riflette proprio su quanto possa essere evanescente, in generale, il lavoro su un film. Anni e anni dopo, si trova a scrivere la sceneggiatura tratta da un suo stesso romanzo, Chesil Beach: «Ma è stato allora [con Bertolucci] che ho iniziato a capire quanto sia fragile il processo di creazione di un film. Non sempre vengono pubblicati, ma i romanzi vengono scritti. La maggior parte dei film non viene realizzata».
Tra romanzo e film – il film è uscito nel 2017, dieci anni dopo il libro – chissà se qualche elemento di Sabaudia, anche un dettaglio minimo, sia finito, pure inconsciamente, sulla spiaggia, tutta diversa e lontana, di Chesil Beach, contea inglese nel Dorset. Forse, scrivendo, McEwan avrà rivisto per un attimo, davanti a sé, le dune di Sabaudia, il Circeo in lontananza.
(continua in libreria…)
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