Un caso giudiziario in una provincia che osserva e condanna: “La fila alle poste” di Chiara Valerio è un romanzo sulla maternità, sul dubbio e sul peso sociale della colpa. Dopo “Chi dice e chi tace”, una nuova storia morale travestita da giallo…
Dopo Chi dice e chi tace, romanzo finalista al Premio Strega 2024, Chiara Valerio torna nella sua Scauri con La fila alle poste (Sellerio), libro che non si limita a proseguire la storia, ma la rifrange: un’ottica laterale che riprende paesaggio, protagonisti e nervi scoperti, mettendo tutto sotto una luce nuova.
Lea Russo – madre, moglie, avvocata – è di nuovo al centro e subito viene investita da una notizia sconvolgente e feroce: la piccola Agata Palmieri è stata trovata morta proprio nel giorno del suo compleanno.
È novembre, la spiaggia è vuota, le vongole spariscono dalla riva, e la tragedia fa detonare quella sospensione senza tempo che caratterizza la provincia.
La madre di Agata, Giovanna, finisce in cella, il caso appare già chiuso, ma proprio l’eccesso di linearità apre un vuoto di senso: nulla è davvero limpido, nulla torna del tutto.
Il libro gioca col meccanismo del giallo per scardinarlo. Non offre suspense né soluzioni, ma domande: quando la cura diventa peso? Dove è il limite fra cura, dedizione e mortificazione della propria libertà? Che ne è della verità quando una storia, una vita, una famiglia entrano nel frullatore del ricordo, dei referti, dei titoli di giornale?
Valerio usa l’omicidio come innesco per esplorare colpe immateriali, lutti muti, identità sfuggenti.
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Il tema della maternità attraversa ogni pagina
Il tema della maternità attraversa ogni pagina: Giovanna, madre sotto accusa; Lea, madre che osserva e teme di fallire; le suore, madri surrogate dal carico ambiguo; le figlie, che registrano tutto con spietata lucidità.
In parallelo corre una riflessione sul ruolo sociale delle donne: quelle che accudiscono, quelle che curano, quelle che giudicano, quelle che scappano. Tutte partono dallo stesso punto – un paese ancora legato a schemi rigidi – ma ognuna si apre un varco personale.
Scauri, più che ambientazione, è un organismo
Scauri, più che ambientazione, è un organismo: ascolta, annota, pettegola e addita. La fila alle poste diventa il suo epicentro simbolico: un display che scandisce attese e sospetti, un coro che decide reputazioni mentre il numero avanza. Qui Valerio incrocia il quarto asse narrativo: l’oscillazione fra la voce collettiva, spesso brutale, e il dramma intimo di chi finisce al centro dello scandalo. Le dicerie ingrossano fatti, sottraggono sfumature e macinano identità.
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Sullo sfondo, un micro-mistero: le vongole trafugate dall’arenile e le suore che, forse, ne sanno più di quanto dicano. È un caso minore, ma illumina il reticolo di piccoli poteri, fedeltà, ritorsioni che regge la vita comunitaria. E, con esso, riaffiora il ricordo di Vittoria, amica morta che continua a irradiare desiderio e nostalgia, fino a incarnarsi nella magnetica dottoressa Rebecca Lanza, destinata a incrinare le certezze di Lea senza che il romanzo forzi mai la mano sul tema dell’orientamento sessuale: più che proclami, contano gli spostamenti intimi, i gesti mancati, gli sguardi che durano un secondo di troppo.
Nel frattempo, il dossier processuale mostra crepe che interrogano la deontologia dell’avvocato: difendere significa credere? Basta garantire un processo corretto? Lea è spinta a riflettere su quanto il diritto si regga sul dubbio più che sulla certezza, e su come la legge si scontri con la brama, nutrita dall’opinione pubblica, di trovare rapidamente dei colpevoli “sicuri”.
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Chiara Valerio non indulge in pietismi sull’handicap di Agata: descrive fisioterapia, notti di veglia, burocrazie sanitarie, il senso di colpa di chi a volte vorrebbe sottrarsi. Mostra come un figlio fragile possa erodere l’identità materna e come la comunità finisca per trasformare l’assistenza in metro di giudizio morale.
Anche in questo caso l’autrice riesce a mantenere una struttura narrativa solida e coesa. Infatti, a fare da collante fra la vicenda principale, le tematiche evocate (di cui Lea si fa traghettatrice umana e riflessiva), la coralità di voci e maldicenze degli abitanti di Scauri e le linee narrative secondarie è la scrittura: una scrittura che resta tesa e concreta, fatta di frasi brevi, passaggi dialettali dosati, ironia rapida che alleggerisce senza smontare la gravità, citazioni culturali inserite con naturalezza. Ogni paragrafo stratifica piani diversi – cronaca, memoria, flusso di coscienza – senza mai perdere nitidezza.
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Nella zona grigia dove si formano empatia e condanna
E mentre il processo si allunga, la soluzione rimane fuori campo, ma non è un difetto: Valerio preferisce lasciare chi legge nella zona grigia dove si formano empatia e condanna. E quando, sul finire, un’ultima notizia sconvolge l’opinione pubblica, capiamo che la verità giudiziaria interessa meno della risonanza emotiva e sociale che un caso così produce.
La fila alle poste parla di donne chiamando in causa gli uomini, parla di provincia per dire il mondo, parla di normalità per mostrarne le fratture. Valerio conferma la capacità di trasformare la complessità in racconto senza urlare: resta nel dubbio, lo abita, lo rende fertile.
Il risultato è un romanzo compatto, che chiede di essere ascoltato, più che risolto.
Quando l’ultima pagina si volta, il display dello sportello delle poste brilla ancora: il numero successivo è il nostro, e ci invita a domandarci se vogliamo restare in fila o provare a guardare oltre i vetri opachi del pregiudizio.
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Fotografia header: Chiara Valerio, nella foto di Getty Editorial, e la copertina di "La fila alle poste"