Ma i teenager della Generazione Z desiderano essere salvati? Se lo chiede Walter Siti, in libreria per il marchio Silvio Berlusconi editore con il pamphlet “La fuga immobile – Lo strano caso della Generazione Z” – Su ilLibraio.it un estratto dall’ultimo capitolo (che inizia così: “Una delle mode sui social, si sa, è il family vlogging”…)

Nato a Modena nel 1947, Walter Siti vive a Milano ed è uno dei più noti e discussi scrittori italiani contemporaneai. Autore di romanzi (nel 2013 ha vinto il premio Strega con Resistere non serve a niente) e saggi acclamati dalla critica, curatore delle opere di Pier Paolo Pasolini per i Meridiani Mondadori, ex docente universitario, Siti firma ora il pamphlet La fuga immobile – Lo strano caso della Generazione Z.

Come annunciato, il libro esce per il marchio Silvio Berlusconi editore, e già questa è una notizia (“Non vedo perché la mia scelta dovrebbe scandalizzare…”, aveva però commentato, “a caldo”, a fine giugno 2024, con ilLibraio.it l’autore).

Nel nuovo libro lo scrittore e critico si immerge nei linguaggi delle ragazze e dei ragazzi di oggi, in un’indagine che attraversa molte delle mutazioni in corso nella nostra società. “Un viaggio nei nuovi riti dell’ipersensibilità, nel tentativo di capire cosa succede quando il futuro non è più una promessa ma un rischio da evitare”.

Del resto non passa giorno che media, social ed esperti discutano delle (nuove?) problematiche legate all’adolescenza. Restando in ambito librario, ad esempio, si è molto parlato del saggio La generazione ansiosa di Jonathan Haidt, uscito da noi per Rizzoli.

Walter Siti nel nuovo libro si chiede: “(…) Ma i teenager della Generazione Z desiderano essere salvati? Alcuni, i più esposti, quelli che con le proprie ali fendono l’aria per tutto lo stormo, forse ce lo chiedono con due posture apparentemente contrapposte: gli uni si mostrano abulici, depressi, si tagliuzzano le braccia e le gambe, trasformano la propria stanza in un bunker; gli altri, nati perlopiù in quartieri meno comodi, si riuniscono in bande, aggrediscono e vandalizzano, non si sottomettono e costituiscono la disperazione dei professori di periferia. Invece quelli che nello stormo si tengono al centro, al riparo, adottano una strategia meno appariscente: si defilano, si appiattiscono, vanno bene a scuola, dissimulano perfino di stare volando. Mimetizzano la propria fragilità sotto una innegabile fragilità generale…”.

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Walter Siti La fuga immobile

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto dall’ultimo capitolo:

(…)

Una delle mode sui social, si sa, è il family vlogging: condividere dei reels in cui la famiglia esibisce le proprie abitudini privilegiate o buffe – ormai accade, grazie ai progressi dell’AI, che si possa seguire una famiglia nelle sue vacanze, papà e mamma abbracciati mentre i due figli, maschio e femmina, giocano a fare castelli di sabbia; tranne che a esistere in carne e ossa è solo il sedicente padre, in realtà un celibe desideroso di famiglia che se ne è costruita una con l’intelligenza artificiale. Nulla cambia nell’emozione di chi guarda l’immagine, invidiosamente identificandosi. O magari invece la famiglia è vera e un odiatore seriale ha diffuso la notizia che sia finta, impossibile (o troppo lungo) verificare. Non ne vale la pena. Forse l’attuale disordine mondiale, i corpi in subbuglio e tutti gli altri allarmi, non sono che una distrazione di massa per permettere alla tecnologia di procedere indisturbata alla sostituzione della realtà. La ‘vita sintetica’ di cui parla il biologo Craig Venter (un batterio con un DNA artificiale capace di replicarsi e sopravvivere), gli embrioni cresciuti in provetta da semplici cellule staminali (anch’esse sulla via di poter essere create artificialmente), non sono già un’alternativa alla realtà che conosciamo, ed eventualmente una speranza? E gli esopianeti, perché no?

La sproporzione tra i nostri sensi biologici e quel che il mondo sta diventando è talmente enorme che l’apparato cerebrale con cui ancora pretendiamo di organizzare la realtà vale meno di zero. La fragilità è commovente finché non arriva uno schiacciasassi, dopo è solo poltiglia. Per studiare seriamente la psicologia dei sedicenni di oggi servirebbe una fenomenologia del collasso, nel senso di capire come si sopravvive a una situazione di apocalisse sempre imminente e mai in atto. Se noi adulti ci stiamo abituando alle guerre che non possono finire perché nessuno le dichiara e non le chiama nemmeno così, alle tregue che ratificano condizioni insopportabili di squilibrio, ai dopoguerra che sono anteguerra già annunciati, come fa un ragazzo a starci dentro senza il disincanto che deriva dalla vecchiaia? La guerra come altro nome della pace. Loro non vogliono averci a che fare con questo tipo di conflitti ma sbaglieremmo a presumerli disertori: non disertano, sono solo da un’altra parte, questa non è la loro guerra. Così come le scaramucce tra chi si vanta di non offendere mai nessuno e chi si fa del ruggire offensivo un blasone: loro scantonano, sottraendosi a una zuffa che non li riguarda. Il loro core business è la paura, da non intendere solo come debolezza e viltà, ma come avvertimento del pericolo e molla per l’astuzia.

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Già in un profetico libro del 1963, L’uomo è antiquato, Günther Anders parlava della “vergogna prometeica”, definita come “vergogna che si prova di fronte all’umiliante altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi” – e non conosceva che la ‘cibernetica’, cioè calcolatori piuttosto primitivi, più la fotografia, il cinema e la televisione (oltre alla Bomba, ossessione di quegli anni). Per noi anziani ora questa vergogna è moltiplicata per mille, tanto evidente è l’incapacità della nostra anima di reggere il confronto con la nostra produzione; ma i sedicenni di oggi forse non si vergognano più, perché gli oggetti se li sono trovati già intorno come se facessero parte del paesaggio, anzi della natura. ‘Diventare un prodotto’ è un’ambizione giovanile non più così sorprendente: davanti a macchine che potrebbero distruggere il mondo, l’unico modo per placare l’angoscia è sentirsi alleati delle macchine stesse o addirittura, meglio, percepirsi come una parte integrante di esse. L’estetizzazione dell’esistere e la de-realizzazione della realtà sono il brodo di coltura, il crogiolo in cui la nuova specie neo-umana va maturando. Oggi 2 giugno, festa della Repubblica, l’ANSA riporta la notizia che un genitore toglie il blocco al cellulare del figlio ucciso e ci trova il selfie dell’assassino, che non aveva saputo resistere alla tentazione: il disumano non è un desolato punto d’arrivo ma un ipotetico punto di partenza – il sarcasmo come epicedio di una specie in via di estinzione.

I nuovi umani lo sanno che l’impegno non è altro che l’anima del commercio, quindi si divertono a indossare una T-shirt di Dior (“We Should All Be Feminists”) che costa settecentocinquanta dollari, e se i soldi non ce li hanno ne comprano una tarocca con la stessa scritta, e se a indossarla è un ragazzo con l’aria da macho, ancora meglio – il contributo al miglioramento sociale è percepito come un paradosso che sa di aver perso in partenza. La comodità ha fatto tramontare l’umanesimo e i teenager cominciano a sentire il fascino del non essere (solo) umani. Anche nell’espressione artistica, oltre che in quel tableau vivant che sono loro stessi; ubbidiscono a Jia Tolentino e si combinano una perfetta Instagram face. Nelle immagini che li rappresentano non sono loro: questo è il segreto. Sono al di là del narcisismo, l’etimologia di ‘narciso’ viene da ‘narke’, la stessa parola da cui derivano ‘narcotico’ e ‘narcolessi’, letargia e torpore, mediante i quali si può immaginare di incontrare sé stessi come sconosciuti e di morire nel tentativo di raggiungersi. La loro fuga immobile è la richiesta di cittadinanza in un mondo alternativo; guardano con sufficienza ai loro fratelli e sorelle maggiori, che si dannano a fare soldi col sesso e le criptovalute, o bamboleggiano in fantasie spiritualistiche, o sgomitano per un ‘dominio’ informatico accattivante. L’‘effetto Flynn’ (quello che calcolava circa 15 punti di aumento del QI da una generazione all’altra) sembra essersi invertito, ma fingersi un po’ rincitrulliti è una buona strategia. Poi forse arriverà, in ritardo, la onlife salmastra di cui abbiamo parlato, ma quel che diventeranno non importa perché loro sono già mutati in qualcosa di intermedio e di inedito – per la realtà bastano i farmaci. Se l’orizzonte delle cose che si possono cambiare si restringe a imbuto, loro si ‘riconvertiranno’ come fabbriche che non producono più le merci giuste; cresceranno, dando ragione senza saperlo alla mummia di Benedetto Croce (“il problema dei giovani è uno solo, invecchiare”). I modelli di rivolta sono ormai cover sbiadite, i ruoli da vittima pressoché esauriti, la decenza personale è un turbinio di identità. Invece di essere una generazione che si preoccupa e di cui ci si preoccupa, ambiscono a essere una generazione che passa inosservata – di più, rinunciano al diritto stesso di esser definiti una generazione, pur di sparire. Sono cuccioli strani, che non hanno più niente da chiedere agli adulti – dalla loro indifferenza gli adulti possono ricavare soltanto un’esortazione a non mentire, ad ammettere che in quei cuccioli è avvenuta una mutazione genetica. Non sono più abituati a voltarsi indietro, il passato è un muro nero e per fortuna le macchine nuove sono così nuove che un passato manco ce l’hanno.

(continua in libreria…)

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Fotografia header: Walter Siti GettyEditorial 25-8-2025

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