L’umanità in tempi infetti: il coronavirus visto da Milano. Su ilLibraio.it la riflessione dello scrittore Jonathan Bazzi, che con “Febbre” (Libro dell’Anno di Fahrenheit-Radio3) ha vinto il Bagutta Opera Prima ed è stato proposto per il Premio Strega 2020

La mente ai tempi del coronavirus fluttua tra notizie e stati emotivi ambivalenti, contraddittori: si seguono compulsivamente bollettini medici e aggiornamenti, si annullano eventi, anche controvoglia, si immagina, si teme, si ridimensiona.

A Milano – la città in cui vivo – da una settimana siamo in balia di uno scenario del non più/non ancora, inedito e sospeso: un carnevale dalle maschere introvabili, una specie d’estate in anticipo, frutto del surriscaldamento globale e dei (criticatissimi) diktat per arginare lo strapotere del virus.

Le lunghe passeggiate in una città incerta sull’atmosfera da indossare, sono segnate dalla diffidenza ma anche dalla curiosità reciproca: ci si guarda a vicenda, più per captare tensioni emotive e idiosincrasie che per mettere in atto un’autentica profilassi, e ogni starnuto, anche casuale, riempie di vergogna e calamita sospetti.

Non si ha a che fare con una sola intonazione psichica: si rimane scissi da una polifonia dissonante, scandita dalla compresenza schizofrenica di supermercati depredati da clienti col viso totalmente coperto da sciarpe e occhiali, e gente che ironizza sprezzante, ti tossisce addosso senza alcuna remora o in pubblico telefona al medico di famiglia inscenando malori inesistenti per racimolare qualche giorno di malattia.

È il tempo delle paure paventate, ingigantite, schivate, delle esagerazioni ma anche del rispetto che viene a mancare, tra speculazioni, feticismi igienici e indignazione sui social.

A casa dal lavoro o da scuola, con più momenti liberi del solito, ma col senso di colpa per ogni incontro, appuntamento, ritrovo: non è una tragedia, né propriamente uno stato d’emergenza.

Questo si potrà fare?, meglio evitare?
No, se sei raffreddato facciamo che ci vediamo più avanti.

Si aspetta che passi all’interno di uno spazio alieno, amorfo, ma teso, teleologico, che a molti certamente, sotto sotto, all’inizio ha intrigato, sedotto: perché libera, almeno in parte, dal giogo del libero arbitrio e assegna il senso di uno scopo unitario e comune. Una missione, immaginandoci tutti, all’interno di questo delirio scomposto, melodrammatico, più o meno motivato, come tante piccole parti investite del duplice compito di mettersi in salvo, custodendo al contempo lo stesso grande corpo di cui fanno parte. Uno spazio che inizialmente ha eccitato e ora inizia a stufare: nessun tracollo, dunque, perché non possiamo tornare a uscire, riunirci, bere, produrre?

Accanto alla forma che hanno assunto le nostre giornate c’è in campo dell’altro: sebbene spesso si finga che non sia così, ci stiamo accorgendo che pare proprio impossibile non ricoprire di strati interpretativi e culturali qualsiasi fatto, spesso ancora prima di averlo compreso, col rischio di deformare e produrre nuove forme del pregiudizio, nuovi bias cognitivi. Lo stigma infatti non è solo sbagliato moralmente: è pericoloso, abbaglia.

Mentre i ristoranti cinesi si svuotavano e in tv personaggi nazional-popolari dichiaravano liberamente: ‘quando vedo un cinese me la do a gambe’, il virus si è diffuso attraverso italiani probabilmente non testati a dovere (proprio perché italiani), e quindi lasciati liberi di infettare a sanitari e congiunti.

Nel tentativo di riuscire a maneggiare il male, si continua a cercare identità stabili che possano renderlo riconoscibile, circoscritto, meglio se già afflitte da una qualche forma di preconcetto.

Così l’HIV era, e per qualcuno anche è, il virus (solo) dei gay, e il coronavirus (solo) dei cinesi: ma i microrganismi sono creature primitive, ancestrali, ben più libere di noi. Non hanno preferenze etniche e sono immuni dalla superstizione, e in questo senso partono sempre avvantaggiate. Il clima di discriminazione con tutta facilità ci si è, ancora una volta, rivoltato contro.

L’emergenza coronavirus è ormai un gioco di reinterpretazioni e riposizionamenti identitari e gerarchici, qualcosa che riguarda le nostre appartenenze ma anche e soprattutto il modo in cui trattiamo l’identità altrui. All’iniziale paura delle persone dai tratti asiatici si è associata quella verso i lombardi-veneti, mentre all’estero sono ormai gli italiani in toto a destabilizzare.

Si tratta probabilmente di una fase solo provvisoria: il virus andrà anche altrove – forse ovunque –, ma in ogni caso ora stiamo facendo i conti con una svolta narrativa che ci riguarda da vicino, e in stretta sintonia con la festa delle maschere. Che attualmente, infatti, i reietti/rifiutati/schedati stiano diventando gli italiani – e nello specifico proprio i lombardi – è un notevole rovesciamento dell’ordine costituito, degno, guarda caso, proprio dell’origine simbolica del carnevale: il momento che stiamo attraversando porta sotto gli occhi di tutti come nella recita generale del mondo alla fine basti davvero poco – ventiquattr’ore – per ritrovarsi nel ruolo del materiale umano scadente, malaccetto, sgradito. Le identità sono porose, il loro valore è proiettato, assegnato da fuori, ed è bizzarro che sia servito, nel 2020, un virus a ribadirlo.

Il contagio è partito dalla Cina (ed è un fatto), e la Lombardia ne è diventata un sorprendente ricettacolo (ed è un altro fatto): i dati di partenza sono questi, ma da qui a trascinare, per accesso di zelo – o superstizione –, intere comunità nel cono d’ombra dello stigma, il passo si è rivelato purtroppo brevissimo. Dei cinesi, ad esempio, si è preso a dire che sono colpevoli perché mangiano tutto – qualsiasi cosa! – quando invece è davvero sempre una questione di prospettiva: da antispecista potrei ribattere che la cultura cinese è forse meno ipocrita della nostra, che si sente superiore venerando cani e gatti mente porta al macello mucche e maiali.

Poter disporre di un capro espiatorio è un triste privilegio: significa che il male è perlomeno circoscrivibile, recintabile. È facile però che nei prossimi giorni e nelle prossime settimane non sarà più così semplice trovare un’identità singola da evitare, mettere al bando. Forse a quel punto recupereremo un punto di vista più generale, neutro, e chissà se riusciremo a trattenere, capitalizzare qualcosa del ribaltamento prospettico che abbiamo sperimentato, senza abbandonarci alla rimozione.

Provare a sfruttare un momento di caos e incertezza mantenendo gli occhi ben aperti, per osservare le inclinazioni difensive proprie e altrui – anche senza arrivare per forza allo sfogo formato post o tweet –, è forse un modo migliore di altri per abitare il tempo della crisi, per coltivare, usando la felice espressione di Hannah Arendt, l’umanità in tempi bui.

jonathan bazzi

L’AUTORE – Jonathan Bazzi (Milano, 1985) è cresciuto a Rozzano, estrema periferia sud milanese. Laureato in filosofia alla Statale di Milano, prima di esordire come autore ha collaborato con magazine e testate online (Gay.it, Vice, The Vision). Nel 2019 è uscito il suo primo romanzo, Febbre (Fandango), vincitore del Libro dell’Anno di Fahrenheit-Radio3, del Premio Bagutta Opera Prima e proposto per il Premio Strega 2020 da Teresa Ciabatti.

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