Interrogandosi sulla direzione intrapresa del giornalismo contemporaneo, alle prese con l’impatto della rivoluzione digitale, la crisi dei bilanci e la ricerca di nuovi modelli di business, vale la pena analizzare i profili professionali che cerca una delle testate di punta del panorama internazionale, il “New Yorker”. Si richiedono competenze informatiche, tecniche e grafiche di alto livello, combinate a a un’attitudine per la scrittura e al fiuto per la notizia… – L’approfondimento

Stella polare del giornalismo internazionale, il New Yorker è una di quelle testate per cui qualsiasi giornalista vorrebbe, almeno una volta nella vita, aver modo di scrivere, fosse anche solo per vedere un proprio titolo stampato in caratteri Irvin, il font che da anni funge da marchio di fabbrica del settimanale, sia nella versione cartacea sia in quella online.

Appartenente alla grande famiglia Condé Nast, la rivista newyorkese spazia dalla politica alle questioni internazionali, dalla scienza alla tecnologia, dall’economia alla società, tra cronaca, approfondimenti e reportage, riservando un’attenzione particolare all’arte, alla cultura e alla letteratura contemporanee, comprese le vignette umoristiche che fanno ormai parte della storia stessa del settimanale.

Non è tutto, il New Yorker si distingue, sì, per l’ampiezza dei temi trattati, ma anche per la qualità della scrittura, grazie alle firme di alcuni tra i giornalisti migliori del suo tempo; queste caratteristiche, combinate con l’autorevolezza delle scelte editoriali e l’affidabilità delle informazioni, garantita da una squadra di fact-checker impareggiabili, hanno fatto la fama e la fortuna del giornale. Per questo motivo, come si diceva, scrivere per una simile testata sarebbe un onore per molti giornalisti; non solo, anche per diversi scrittori, vista la grande tradizione di esordi ed exploit letterari che hanno trovato spazio tra le pagine del New Yorker: nomi come John Cheever, Roald Dahl, Alice Munro, Haruki Murakami, Vladimir Nabokov, George Steiner, John Updike e Richard Yates, per citarne alcuni.

La riflessione, che fin qui sembra aver preso la piega di un elogio sperticato, vuole in realtà cogliere l’occasione per soffermarsi sul presente del giornalismo alla luce della sua più recente evoluzione, innescata dalla rivoluzione digitale e dall’impatto, spesso devastante, che questa ha avuto sul mercato dell’informazione. Lo spunto del ragionamento è fornito proprio da una delle testate più rilevanti: recentemente sul sito newyorker.com, sono state pubblicate alcune offerte di lavoro per posizioni molto specifiche all’interno del giornale e, secondo la filosofia del “dimmi chi assumi e ti dirò chi sei”, vale la pena di spendere qualche riga per analizzare il tipo di profili professionali delineati nel bando, figure come Digital Photo Editor, Editorial Interactive Producer, Newsletter Editor, Data Journalist e Researcher, Interactive Stories.

Per tutte le cinque posizioni offerte viene elencata una dettagliata serie di competenze necessarie, molte delle quali esulano dall’esperienza redazionale tradizionale e sconfinano nel mondo delle professioni digitali, grafiche, informatiche, tecniche e commerciali, alle quali si deve tuttavia combinare un’attitudine – che non può mancare – nei confronti del giornalismo e della scrittura: per la posizione di Editorial Interactive Producer, il cui compito è sviluppare contenuti editoriali interattivi per il sito, si legge che il candidato ideale è un “produttore digitale con alte competenze tecniche e una passione per lo storytelling”, qualcuno che sappia utilizzare i programmi per lo sviluppo di contenuti multimediali interattivi e, allo stesso tempo, abbia i mezzi per capirli e apprezzarli, in modo da poter contribuire tanto alla ricerca di idee innovative e interessanti quanto alla loro concreta realizzazione.

Dal canto suo invece, un buon Newsletter Editor deve saper collaborare alla creazione di nuove newsletter, gestirne il lancio e raccogliere e analizzare i dati necessari a stabilire se l’operazione ha avuto o meno successo; deve inoltre dimostrarsi capace di usare i contributi dei collaboratori della rivista per dare forma a contenuti originali che siano adatti alle newsletter, avere una buona comprensione degli strumenti di analisi informatica e di marketing.

“Una posizione tanto tecnica quanto giornalistica”, come specificato nel profilo del candidato, è quella del Data Journalist: un professionista capace di raccogliere e selezionare i dati necessari per costruire un articolo, gestire grandi quantità di informazioni, sviluppare grafici e interazioni che permettano al lettore di visualizzarle, sia che riguardino condizioni climatiche sia che si riferiscano alle classifiche degli ascolti musicali su Spotify. Ci si aspetta che padroneggi i linguaggi di programmazione per l’analisi e l’elaborazione dei dati, che sappia proporre valide idee per articoli di data journalism e abbia le capacità di utilizzare i programmi grafici e informatici necessari per realizzarle.

Nel profilo per la posizione di Researcher, Interactive Stories, si chiarisce che il candidato ideale deve possedere “un forte istinto editoriale e una profonda conoscenza di come diversi media possano essere più utili a raccontare una storia”. Si tratta di una figura dedita alla ricerca di fatti e informazioni che si prestino allo sviluppo interattivo, deve saper coniugare un certo fiuto per la notizia e riconoscerne le potenzialità visuali, proporla in modo convincente ed essere capace di svilupparla, avendo le competenze di programmazione, grafica e informatica necessarie.

Infine, la posizione forse più tradizionale, quella di Photo Editor: in questo caso chi intende proporsi deve sapersi occupare della selezione delle immagini che compaiono sul settimanale, sul sito e sulle pagine social della rivista, deve possedere una buona conoscenza della regolamentazione sul diritto di immagine e, allo stesso tempo, essere capace di modificarle utilizzando programmi come Photoshop e Illustrator.

Per tutte e cinque le posizioni aperte viene fornita un’esaustiva descrizione del profilo professionale, non soltanto dal punto di vista delle competenze tecniche e giornalistiche, ma anche sul piano personale e caratteriale: viene richiesto un interesse nei confronti delle tematiche più discusse al momento e una passione per lo storytelling, ci si aspetta fiuto giornalistico e capacità di collaborare con artisti e scrittori, una buona capacità di sintetizzare idee complesse in modo chiaro e, perfino, una fastidiosa attenzione ai dettagli”.

Nel leggere questi brevi ma minuziosi ritratti dei candidati ideali, salta all’occhio un aspetto che, in un modo o nell’altro, li accomuna: la necessità di una figura professionale ibrida, capace di coniugare informatica e narrativa, interazione multimediale e giornalismo, dati matematici e il fiuto per la notizia; inoltre, per ricoprire una qualunque di queste posizioni è necessario maturare un’attitudine alla collaborazione nel senso più ampio del termine: non bisogna soltanto saper lavorare insieme ai propri colleghi per la realizzazione di uno stesso progetto, si tratta di far collaborare diversi aspetti della propria formazione, volgere i campi delle proprie conoscenze teoriche e pratiche al servizio di un compito articolato, composto di aspetti numerici, narrativi, visivi, necessari al compimento di un unico prodotto, ovvero l’informazione.

Sono i presupposti per lo sviluppo di un giornalismo che vuole fare delle potenzialità digitali il suo punto di forza, piuttosto che il suo tallone d’Achille. Non che vi sia nulla di rivoluzionario, anzi. Basta avere una qualche familiarità con il giornalismo internazionale per sapere che negli ultimi anni diversi quotidiani e riviste hanno scelto di intraprendere questa via, spesso con un notevole successo in termini di crescita del pubblico, ma non sempre in termini di bilancio: il New York Times, il Guardian e il Washington Post sono solo alcune delle testate che hanno scelto di investire negli abbonamenti digitali e nelle newsletter, nei contenuti multimediali e nei longform interattivi. Ne derivano prodotti di qualità, in opposizione alle notizie copia-incolla reperibili gratuitamente online, una fidelizzazione del lettore basata su contenuti di alto livello, che non solo spazia in tutti i campi della cultura contemporanea, ma potenzia l’esperienza della lettura grazie alla tecnologia, scegliendo di investire su profili professionali volti a innovare il giornalismo, sfruttando gli stessi strumenti digitali che, altrimenti, potrebbero determinarne il decesso.

Va ripetuto che, nel 2018, si tratta della scoperta dell’acqua calda: l’evoluzione del sistema dell’informazione è già in corso da tempo, e non è certo la prima, basti pensare, tenendo buono il New Yorker come esempio, alla trasformazione del settimanale attraverso la seconda metà del secolo scorso; negli anni ’50, sotto la direzione di William Shawn, la testata “aveva come missione quella di difendere l’’Arte’ e proteggere la ‘Cultura’, con le maiuscole, ovvero, resistere ai ‘barbari’ che volevano abolire le gerarchie culturali fra ‘high’ e ‘low culture’ e diluire, nel contempo, il confine tra gusto e mediocrità, élite e masse, cultura e intrattenimento”, come si legge in Mainstream. Come si costruisce un successo planetario e si vince la guerra mondiale dei media di Frédéric Martel (Feltrinelli, traduzione di Matteo Schianchi). Nei decenni successivi, attraverso una graduale mutazione, la testata ha assunto le caratteristiche con cui è nota tutt’oggi, aprendosi alla cultura pop: grazie a figure come la critica cinematografica Pauline Kael e la direttrice Tina Brown, in carica tra il 1992 e il 1998, il giornale “ha poi preferito – secondo una formula che ha fatto il successo della rivista – prendere sul serio la cultura ‘low’ e scrivere in modo popolare di temi di ‘alta cultura’”. Una scelta che già prevedeva un altro aspetto dell’evoluzione, ovvero un crescente interesse nei confronti della contemporaneità, al quale si deve l’ampliamento, nel corso degli anni ’90, dello spazio dedicato all’attualità, che ha continuato a crescere negli anni successivi. Nelle parole della stessa Brown, “il New Yorker doveva parlare di ciò di cui la gente parlava”. Oggi si potrebbe aggiungere che deve utilizzare i supporti che la gente usa.

In conclusione, tornando al presente, non sorprende tanto il cambiamento che, come si è visto, è la cosa più vecchia che ci sia, ma fa piacere constatare che l’evoluzione del giornalismo scommette il proprio successo su figure professionali di alto livello, esseri umani dotati di talento: come un orologiaio, che sceglie con cura i singoli pezzi da assemblare, selezionandone non solo la fattura, ma anche la materia prima, e punta sulla loro capacità di svolgere insieme il proprio compito, all’interno del sistema di ingranaggi, per costituire l’orologio perfetto. Si potrebbe dire che non sarebbe tanto un onore lavorare per il New Yorker, ma con il New Yorker, insieme ai suoi ingranaggi.

Libri consigliati