Un paio di secoli dopo la scrittura de “L’Infinito”, lo scrittore Palandri scrive “Verso L’Infinito”: una riflessione sul significato, estremamente moderno, che ancora oggi si nasconde nei versi più celebri di Giacomo Leopardi… – Su ilLibraio.it un capitolo

Quando, a vent’anni, Giacomo Leopardi scrisse L’Infinito, aveva già divorato la biblioteca paterna e compiuto studi approfonditi su gran parte della letteratura classica, procurandosi, chino sui libri, i primi acciacchi di salute. Non aveva ancora avuto modo di ampliare i suoi orizzonti oltre i confini di Recanati e di quella biblioteca, ma aveva una curiosità insaziabile nei confronti del resto del mondo, una curiosità che fa capolino nei suoi versi più celebri, capaci, tutt’oggi, duecento anni dopo, di ispirare riflessioni più ampie, come accade nel nuovo saggio di Enrico Palandri, Verso L’Infinito (Bompiani).

enrico palandri verso l'infinito bompiani copertina

Veneziano, classe ’56, Palandri è docente di letterature comparate all’Università Ca’ Foscari di Venezia e insegna letteratura europea moderna al UCL a Londra; è autore di diversi romanzi (su tutti l’esordio di culto, Boccalone) e saggi, tra i quali Pier. Tondelli e la generazione (Laterza), monografia su Pier Vittorio Tondelli, e Primo Levi (Le Monnier).

In questo nuovo libro, lo scrittore esplora la complessità del pensiero leopardiano a partire dai più celebri versi del poeta, muovendosi tra la biografia, gli scritti e le letture che andarono a formare il giovane Leopardi.

Le pagine di Verso L’Infinito tratteggiano il ritratto di un personaggio complesso, troppo spesso ridotto a un pessimismo cosmico che non può essere la sola eredità del poeta: Palandri guida il lettore alla scoperta di alcune delle tematiche meno note dell’opera di Leopardi, dimostrando quanto possa essere attuale e moderno il messaggio del poeta recanatese.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it un estratto del libro:

Essere quello che siamo

Nel ripercorrere la cronologia degli eventi che circondarono la scrittura di l’infinito e gli incontri romani, si è adottato anche qui inevitabilmente un modo di procedere lineare. I versi che abbiamo citato Sta natura ognor verde, anzi procede/Per si lungo cammin/Che sembra star, insieme alla forma che Zibaldone è andato prendendo, divergono invece in modo sostanziale da questo modo di procedere. Escono dalla linearità: la storia promette la stessa consolazione del paradiso cristiano alla fine della vita, facendo slittare nel futuro il nostro essere qui. Sono soluzioni a cui Leopardi resiste.

Noi siamo in un mondo diverso da quello ottocentesco: se per lui è un nucleo illuminista e settecentesco a resistere, per noi è la fine dell’epoca delle ideologie politiche. C’è la tentazione di dire “dopo” il romanticismo, se questa preposizione non reintroducesse la linearità.

La reazione agli ideali unitari dei gruppi umani con cui entrò in relazione, l’attrito con la loro fiducia nel progresso, portano Leopardi a consolidare un senso di estraneità alla storia.

Tutto questo si può dire non solo dei sapienti ma degli uomini in generale, e compiangere non solo l’impotenza del sapere umano, non solo il cattivo giudizio nello scegliere, cioè il (492) curarsi delle cose poste fuori dalla nostra sfera, e a noi straniere, e lasciar le vicine, e importanti per noi; ma anche la cecità, la miseria, l’inutilità, la dannosità del sapere umano: quando tutte le cose che noi dovevamo sapere, ed ancora che possiamo sapere, sono veramente emproszen emon kai para podas, e finalmente la sommità, l’ultimo grado del sapere, consiste nel conoscere che tutto quello che noi cercavamo era davanti a noi, stava tra i piedi, l’avessimo saputo, e lo sapevamo già, senza studio: anzi lo studio solo e il voler sapere ci ha impedito di saperlo e di vederlo; il cercarlo ci ha impedito di trovarlo. E guardando in alto per informarci delle cose nostre, che ci stavano tra i piedi visibilissime, chiarissime, e ordinatissime, non le abbiamo vedute, e non le vediamo; e siamo per conseguenza caduti e cadiamo in tante fosse, primieramente di errori, secondariamente, che peggio è, di mali e infelicità. Quanto non si è studiato, che cosa non si è consultata, quali confronti non si son fatti, quali rapporti non osservati, quali secreti, quali misteri (493) scoperti o cercati di scoprire, quante scienze, quante arti, quante discipline intentate, quante istituzioni fatte, o politiche o morali o religiose ec. Per iscoprire la nostra origine, i nostri destini, la natura delle cose, l’ordine universale, la nostra felicità! Ma noi eravamo felici naturalmente, e tali quali eravamo nati, l’ordine delle cose era quello né più né meno che ci stava innanzi agli occhi, quello che esisteva prima dei nostri studi i quali non hanno fatto altro che turbarlo; la natura era quella che noi sentivamo senza studiarla, trovavamo senza cercarla, seguivamo senza osservarla, ci parlava senza interrogarla: il bene e il male era veramente quello che noi credevamo naturalmente tale: i nostri destini erano quelli ai quali correvamo naturalmente, come il fiume al mare: la verità reale era quella che sapevamo senz’avvedercene, e senza pensare o credere di sapere. Tutto era relativo, e noi abbiamo creduto tutto assoluto: noi stavamo bene come stavamo, e perciò appunto ch’eravamo fatti così; ma noi abbiamo cercato il bene, come diviso dalla nostra essenza (494), separato dalla nostra facoltà intellettiva naturale e primigenia, riposto nelle astrazioni, e nelle forme universali. Si è ricorso al cielo e alla terra, ai sistemi difficili (siano chimerici o sodi), in milioni di guise, per trovare quella felicità, quella condizione conveniente a noi, nella quale eravamo già stati posti nascendo: e non s’è trovata, se non quanto si è potuto conoscere ch’ella era appunto quella che avevamo prima di pensare a cercarla.

(12 Gen. 1810)

Un pensiero straordinariamente assonante con i magnifici versi di Holderlin nell’Hyperion, quando scrive dei tedeschi che sono barbari di un’epoca precedente, che si sono resi ancora più barbari con il lavoro, la scienza e la religione.

Barbari di un’epoca più antica, che si sono resi più barbari attraverso il lavoro, la scienza, la religione.

Questa è la virtù della giovinezza, caratterizzata dall’immaginazione del futuro che ci mette nelle cose, ce le mette tra i piedi. Perché il futuro per il giovane è un sogno, un immaginare. Fingersi. Riusciamo a darci nel presente solo così. Solo nell’immaginazione riusciamo a essere. Dove al contrario prevale la consapevolezza del limite della vita, la presenza della morte, entriamo in un quadro depressivo, che porta all’inazione, all’incapacità di alzarsi dal letto la mattina e ad avere relazioni con altri esseri umani. A vedere lo scopo, il fine, cadiamo in una teleologia che corre verso la morte. Solo chi ha la capacità di sognare il presente, di meravigliarsi della vita, colui che vive come in un sogno in cui il fine non inghiotte utilitaristicamente ogni attimo per trasformarlo in storia, riesce a fare un percorso che consente di esserci. Quando si parla di pessimismo leopardiano, espressione usata spesso per liquidare le difficoltà che il suo pensiero presenta, bisogna guardare con chiarezza questo punto: la quantità e la qualità della scrittura di Leopardi è una grandissima vittoria contro l’abbattimento di cui egli parla spesso, che lo minaccia come le numerose altre malattie da cui è stato affetto e da cui, fino all’ultimo, non si lascia piegare. Detto nel gergo psicologico di oggi, è una vittoria contro la depressione. Non si rivolge a se stesso come vittima di circostanze se non in quanto essere umano in generale, affetto dall’ostilità della natura e impegnato, attraverso le amicizie e la tenacia del proprio voler vivere e dire, a prevalere.

Come ricorda in Il passero solitario, essere presenti è saper cantare e amare gli spassi. Che non solo al protagonista del canto ma a tutti riesce solo a tratti e in una certa misura. Passeggiare, mangiare un gelato, innamorarsi sono già la vita e tutto il suo significato. Cercarne un altro, nascosto, altissimo o banale che sia, finisce inevitabilmente con il togliere al vivere il suo unico senso, ed è questo ciò che ci
perde. Non solo da noi stessi, ma dal mondo.

Leopardi è determinato a lasciarsi risolutamente alle spalle il cristianesimo e la storia: le promesse di una vita dopo la morte o di uno scopo nella storia. Vuole superare il romanticismo, andare oltre l’io e tutti i suoi riverberi, che diventa arbitrario e interiore se si rassegna alla subalternità nei confronti della oggettività politica. In fondo è un’altra fede. Egli sa già che nel proiettarci all’esterno ci mettiamo in fuga da movimenti interni, tentiamo di trovarci in un essere che ci stia davanti, senza noi, cerchiamo nell’utilità uno schermo che ripari dal fatto che la vita è solo se stessa.

A queste idee, che appaiono ripiegate su se stesse ai suoi contemporanei e a molti suoi detrattori in epoche successive, tutti presi dalle illusioni della politica, Leopardi si lega attraverso l’immaginazione e gli affetti. Al loro dover essere la storia oppure non essere affatto, Leopardi suggerisce piuttosto la poesia, gli amici e gli amori che sono la vita, la vera concretezza.

Non appena nasce e cresce nella società una forza che, nelle gerarchie e nelle conversazioni, divide invece sogno e reale, scienza e letteratura, soggetto e oggetto, Leopardi capisce che si viene espulsi, come la poesia. Se ci si chiede: a cosa serve? la vita è già finita. Ascolta quindi le esortazioni patriottiche come prediche domenicali, abbarbicate alle cose e spaventate da quello che siamo.

Questa descrizione della realtà che oppone soggetto e oggetto e si affermerà nel corso dell’ottocento e che di solito chiamiamo positivismo, non è per Leopardi che una scienza degradata a moralistico antidoto alle religioni, un rozzo sforzo di espellere l’umanesimo e non può che fraintendere cosa sia la letteratura o la filosofia proprio perché si chiede a cosa servano. Non è neppure un pensiero, ma una reazione a un pensiero, e non sa che farsene di versi a meno che non li costringa all’interno di un’idea di sapere scientifico per perdonare l’invasione di umano che si svolge nei testi letterari. Gli stessi studiosi di letteratura si adegueranno a questa visione scientifica, per cui alla fine si ritroveranno solo nella filologia o nella storia.

Siccome questo non è possibile, perché la poesia e i romanzi esistono, la letteratura diventa un fatto meteorico, attraversa un sistema cognitivo come un’occasione, una cometa che sfreccia nel firmamento dominato da uno scientismo molto pragmatico, che non può che continuare a espellerla.

La domanda che noi oggi dobbiamo rivolgere, riprendendo la resistenza di Leopardi alla diffusione di tecnica nel mondo, è questa: cosa sono le misurazioni su cui si appoggia questa idea di sapere se non altre rappresentazioni? Se confondiamo la parola acqua e l’acqua, moriamo di sete. Se confondiamo, nel tempo, la cosa e la sua rappresentazione, cosa accade? Se ci rappresentiamo la vita, cosa perdiamo?

(Continua in libreria…)

© 2019 Giunti Editore S.p.A. / Bompiani

 

Nota: l’immagine in alto è © Jenny Condie.

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