Arriva nelle librerie “Scritti a mano. Otto storie di capolavori italiani da Boccaccio a Eco” di Matteo Motolese, un libro che racconta come sono nate alcune delle opere più importanti del canone letterario italiano, dai primi appunti a quando sono state vergate le ultime parole… – Su ilLibraio.it un estratto del capitolo dedicato a Leopardi

Matteo Motolese, docente di Linguistica italiana all’Università La Sapienza di Roma, arriva in libreria con Scritti a mano. Otto storie di capolavori italiani da Boccaccio a Eco, un testo che indaga alcune delle opere, e degli autori, più importanti della letteratura italiana, edito da Garzanti.

L’autore prende in considerazione otto testi della tradizione letteraria italiana e ne analizza la gestazione: conduce la sua ricerca partendo dai manoscritti degli autori, per capirne il metodo di lavoro e l’evoluzione che il testo ha subito in corso d’opera, accompagnando passo passo la composizione di alcuni dei testi capostipiti della nostra letteratura, prendendo come punto di partenza le prime stesure del testo.

Motolese accompagna il lettore in un viaggio che disvela l’evoluzione della lingua e della cultura italiane, prendendo in considerazione la prima stesura dell’opera,  prima che diventasse un pilastro del canone letterario, dai primi spunti del Decamerone di Boccaccio alle pagine del quaderno parigino su cui Umberto Eco scrisse Il nome della Rosa, passando per autori come Francesco Petrarca, Ludovico Ariosto ed Eugenio Montale.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto del libro, dedicato a Leopardi:

VENTI MAGNIFICHE STORIE

Giacomo Leopardi, Operette morali

(Napoli, Biblioteca Nazionale Centrale: C.L. IX)

  1. Colera

«La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui ed in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto». Giacomo Leopardi lo scrive nel dicembre 1836 a un suo corrispondente di Parigi. Ha meno di quarant’anni, ma quelli sono gli ultimi mesi della sua vita: malato, tormentato dalle febbri, è così debole che anche scrivere gli costa molta fatica. Scrive da Torre del Greco dove, con l’amico Antonio Ranieri, si è rifugiato per fuggire dall’epidemia di colera che assedia Napoli. Nella lettera commenta l’editto dei Borbone che ha bloccato la pubblicazione delle sue opere iniziata nel 1835: le copie dei Canti – la raccolta delle sue poesie – sono state sequestrate poco dopo l’uscita; il primo dei due tomi previsti per le Operette morali viene interdetto alla vendita. È chiaro che il progetto è morto sul nascere: dei sei volumi previsti, non ne usciranno altri.

Nell’emergenza dell’epidemia, Leopardi progetta un’edizione che possa essere stampata a Parigi, lontano dalla censura. Le lettere di quei suoi ultimi mesi sono piene di un senso della fine che non potrebbe essere più esplicito. Ogni lettera sembra un addio, definitivo. Scrive al padre, scrive agli amici. Intanto continua a lavorare sui Canti ma rimette mano anche alle Operette morali, il libro a cui ha consegnato la sua filosofia. Usa una copia dell’edizione appena bloccata dalla censura: rilegge operetta per operetta, corregge gli errori, interviene sulla punteggiatura; raramente però una frase intera viene cancellata e riscritta. È il limite estremo del lavoro su questo libro composto a Recanati oltre dieci anni prima. Da qualche parte, ha le copie delle due edizioni che ne sono già state fatte nel corso del tempo: la prima, uscita a Milano nel 1827, e la seconda, pubblicata a Firenze nel 1834, con l’aggiunta di quattro nuovi testi. Ma tra le migliaia di carte che ha portato con sé nel suo viaggio nel Regno di Napoli ha anche la prima versione scritta interamente di suo pugno: il manoscritto in cui ha dato forma a questo libro magnifico, correggendo e riscrivendo ogni pagina fino a raggiungere il prodigioso equilibrio creativo che la sua mente andava cercando.

  1. Palazzo Reale

Il custode all’entrata della sala manoscritti è appoggiato a una ringhiera, fuori dalla finestra, e fuma una sigaretta. Quando si gira, alle sue spalle il mare è una linea azzurra di sorprendente bellezza. Mi guarda con un’aria infastidita: ai suoi occhi sono l’ennesimo lettore venuto in pellegrinaggio per vedere le carte di Leopardi. Quando ho chiamato per annunciare la mia visita, la voce dall’altro capo del telefono mi ha detto: «Non vorrà mica fare un’altra edizione delle Operette morali? Il manoscritto è notissimo».

Per arrivare nella sezione dei rari si percorrono grandi saloni deserti con mobili di legno scuro lungo le pareti, stipati di libri. La Biblioteca Nazionale di Napoli è ospitata nel palazzo più bello della città: Palazzo Reale. Le finestre affacciano sul Maschio Angioino; una serie di terrazze panoramiche offrono la vista del mare dall’alto; per raggiungere le sale dei cataloghi si passa attraverso uno scalone monumentale. Penso alle biblioteche che ho visto nella mia vita e non mi viene in mente un posto più bello di questo. Ma, allo stesso tempo, non mi viene in mente altro posto in cui il declino sia più visibile: lo splendore del palazzo rimanda a un tempo definitiva mente perduto. La biblioteca sembra accampata come una guarnigione: le insegne, i computer, gli uffici ricavati dietro pannelli di plastica trasparente sembrano più invecchiati del palazzo.

La sala manoscritti ha tre tavoli uniti insieme. È molto piccola. I custodi parlano tra loro come se i lettori non esistessero: è in corso un’assemblea e noi siamo chiaramente di troppo. Il telefono squilla di continuo. Sul soffitto, con la volta a botte, si vede un buco rettangolare di mezzo metro, forse residuo di lavori non finiti. Lungo le pareti corre un fregio dorato e, subito sotto, cavi elettrici neri con derivazioni a vista. I disegni ricamati sul fondo color tortora della tappezzeria sono in parte cancellati da macchie d’umidità; negli angoli, la stoffa ha perso aderenza e forma piccole pieghe. Un lampadario antico pende maestoso dall’alto: ha tredici lampadine, tutte spente. Leggere qui le Operette morali sarà un’esperienza intensa, mi dico mentre aspetto che l’autografo venga preso dalla cassaforte in cui è conservato. Qui dove il senso del tempo è così intenso e dove la presenza umana – i custodi, i bibliotecari, i lettori, io stesso – è così estranea alle pareti regali che la contengono.

  1. Carte

Quello che mi viene consegnato in una cassettina è un piccolo libretto, rivestito di pelle chiara. Per un istante lo tengo in mano, chiuso, e osservo la legatura. Sul dorso, in caratteri d’oro su campo marrone, è inciso Leopardi Operette morali.  Infilato in uno scaffale, potrebbe essere confuso facilmente con una stampa.

È uno dei pezzi più importanti del lascito testamentario che Antonio Ranieri dispose nel 1888 per la Biblioteca Nazionale di Napoli, quando ormai l’amico era morto da più di cinquant’anni e lui era un senatore del Regno d’Italia. Napoli era stata la città in cui Leopardi aveva vissuto i suoi ultimi anni, Napoli era giusto che ne ricevesse le carte.

Non è l’unico luogo in cui siano oggi conservati autografi leopardiani ma è soprattutto qui che bisogna venire se si vuole avere un’idea di come Leopardi ha scritto i suoi capolavori: ci sono alcuni degli autografi più importanti delle sue poesie, le edizioni delle sue opere corrette, il fascio di migliaia di fogli dello Zibaldone in cui – giorno dopo giorno – per circa quindici anni ha annotato le proprie riflessioni sui temi più vari. Qui sono conservate anche molte delle sue lettere. Ma sono soprattutto i materiali sparsi ad attirare l’attenzione degli studiosi: singoli fogli, appunti, che possono aiutare a comprendere meglio aspetti della sua scrittura fino a ora rimasti oscuri.

L’autografo delle Operette morali è frutto dell’unione di fascicoli diversi, cuciti insieme con una cordicella. Le carte erano ancora sciolte quando Leopardi scriveva. Alcune operette occupano più fascicoli, altre appena poche pagine. È chiaro comunque che l’unione dei fascicoli in un unico manoscritto, magari ancora non rilegato, è stata fatta sempre da Leopardi: ce lo dice la numerazione continua di sua mano, in alto a destra; la serie di rimandi interni.

La prima cosa che noto appena comincio a sfogliare le pagine non è la scrittura ma la piegatura dei fogli, in verticale. Dopo quasi duecento anni, è ancora ben visibile. Ogni pagina è piegata in due, con la scrittura che corre solo su una colonna. È lo stesso modo di preparare i fascicoli che ho già visto usato da Ariosto. Leopardi lo fa per lo stesso motivo: dividere ogni pagina in due zone ben distinte: quella interna per il testo; quella esterna, di poco minore, per correzioni, aggiunte, varianti. La sua scrittura corsiva, perfettamente leggibile, inclinata in modo costante verso destra, rispetterà quasi sempre questa divisione dello spazio.

(Continua in libreria…)

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