Tutti sanno, o dovrebbero sapere, che in una coppia, se distrattamente si lasciano cadere certe domande, deflagrerà quasi di sicuro un litigio selvaggio… Su ilLibraio.it la riflessione della scrittrice Ilaria Gaspari

Grammatica del disamore: le domande da fare per un litigio assicurato

Tutti sanno, o dovrebbero sapere, che se si butta un mozzicone di sigaretta con la brace che ancora brucia nell’erba secca, divamperà di certo un incendio. Tutti sanno, o dovrebbero sapere, che in una coppia, se distrattamente si lasciano cadere certe domande, deflagrerà quasi di sicuro un litigio selvaggio.

Sono domande apparentemente banali, a prima vista inoffensive – addirittura insignificanti. Possono abbracciare qualsiasi aspetto della vita di una coppia, anzi, della vita in genere. Dalla gastronomia alla moda, fino a problemi molto più complessi che sfiorano la bioetica. Per esempio, possono riguardare una variazione introdotta in una ricetta, un nuovo taglio di capelli, un vestito diverso: “Ti piaccio di più, così?”. Oppure, nella loro variante teorica, includono ipotesi di cambiamenti più drammatici: “Ti piacerei lo stesso, se perdessi questo questo o quest’altro? Non mi lasceresti?”.


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Sono domande accomunate dal fatto di contenere una richiesta di rassicurazione che non può essere soddisfatta da nessuna risposta. Il sì (sì: mi piaci di più così) getta implicitamente un’ombra sul passato più recente: ma come, allora fino a stamattina ti piacevo di meno! Ma come, allora per te non ha nessuna importanza l’aspetto che ho sempre, il corpo che ho ora, tutto quello che in me vedi abitualmente! Il no, chiaramente, suona come un rifiuto perentorio e irrimediabile. Tutto sembra perduto, all’improvviso. E ci si infila subito in un cul-de-sac che trasfigura piccoli dettagli della vita quotidiana e li trascina in una bufera di rivendicazioni e pretese.

Un altro infallibile movente per litigi selvaggi è il frasario della chiaroveggenza emotiva, che si manifesta nella pretesa di sapere cosa sente l’altro e di chiedergliene ragione – anzi, di pretenderla. Questo genere di richieste di solito è accordato all’ottava più alta e più querula del ricatto emotivo – quella del tono passivo-aggressivo, raffinatissima forma di vittimismo violento che brandisce la debolezza come un’arma. Per raggiungere lo scopo del litigio, per esempio, si può insistere con domande che presuppongano che l’altro sia arrabbiato, anche se lo nega, anche se non ha fatto niente che mostri rabbia o rancore; pungolarlo fino allo sfinimento, chiedendogli ragione di questo supposto stato d’animo, alternando le domande con l’accusa di non aprirsi mai, è un sistema particolarmente efficace per scatenare la lite. Una variante consiste nel richiedere, improvvisandosi esattori di una tassa sentimentale, esose dichiarazioni di affetto: perché non mi dici che mi ami? Perché non dici che ti manco?

Di certo queste piccole frasi, che come petardi scoppiano in una baraonda litigiosissima, non coprono tutto lo spettro dei bisticci fra innamorati, che a volte sono baruffe divertenti, altre volte noiosissime, altre ancora dannose, ma non sempre. Frasi così innescano un particolare genere di litigi, molto più profondi di quello che sembra quando le bufere, come spesso succede – per fortuna, e qualche volta per colmo di sfortuna – passano e si fa la pace, e tutto torna improvvisamente a posto. Aprono piccoli squarci su un abisso in cui può essere istruttivo lanciare una sbirciatina – anche se forse sarebbe pericoloso fissarlo troppo a lungo.


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Le frasi litigiose del primo tipo chiedono all’altro di vederci scomposti come in un ritratto cubista, e di soppesare i nostri pezzetti; di compararci con noi stessi. Sono frasi che mutilano chi le pronuncia, lo spezzano in un insieme di qualità slegate apposta per essere contate; costringono chi risponde a un’aritmetica impossibile e a un altrettanto impossibile cubismo emotivo. Le frasi pericolose del secondo tipo, invece, sono accomunate dal fatto di essere dei piccoli tranelli. Sono insidiose richieste di spontaneità che hanno il risultato infallibile di cancellare in un battibaleno ogni possibile manifestazione di quello che chiedono.

Le domande e le proteste dell’aritmetica comparativa e quelle della spontaneità a comando sono accomunate, oltre che dal fatto di essere incontentabili per loro natura, anche da una somiglianza più profonda e inquietante. Sono frasi di disamore, nel senso che tolgono all’amore l’unica condizione indispensabile: la presenza di (almeno) due persone. La persona che pone la domanda dell’aritmetica impossibile, mentre la fa, si frammenta metaforicamente: e pretenderebbe che l’altro come uno specchio gli rimandasse indietro i suoi pezzetti, composti in un’immagine armonica, che li riunisse; ma, per colmare le falle, l’altro non solo dovrebbe essere uno specchio, ma addirittura uno specchio deformante; dovrebbe alterare l’immagine che vede, e che rimanda. È crudele chiedere a un altro il riconoscimento che da soli ci neghiamo, nel momento in cui noi per primi non riusciamo a vederci se non in un prisma di schegge spezzettate e irrelate – un taglio di capelli, una certa taglia di vestiti, due gambe, due braccia, gli anni che abbiamo, il nostro umore o il nostro posto nel mondo – e perdiamo il senso di noi. È crudele verso di noi, perché ci mutila, e anche verso l’altro; che non è lo specchio delle nostre proiezioni, ma, come noi, è una persona tutta intera, che vive una sua vita indefinibile e inconoscibile, una vita che trascende la somma delle sue singole caratteristiche. La richiesta di spontaneità, sottintesa in tutta questa grammatica del disamore che vede l’altro come una proiezione, è crudele anche quella: essere spontanei a comando è un controsenso. Ed è feroce chiedere a qualcuno, come pegno del suo amore, di realizzare un’impresa impossibile.

Ilaria Gaspari - foto di Angelo Palombini

Ilaria Gaspari – foto di Angelo Palombini

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, classe ’86, si è diplomata in Filosofia alla Scuola Normale di Pisa e ha debuttato nel romanzo con Etica dell’Acquario (Voland).
Qui i suoi articoli per ilLibraio.it.

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