“Quando ero bambina, una bambina molto pallida di Milano, ero convinta, chissà perché, che Napoli non esistesse. Pensavo che fosse un luogo d’invenzione…”. La scrittrice Ilaria Gaspari ricorda su ilLibraio.it Luciano De Crescenzo

Quando ero bambina, una bambina molto pallida di Milano, ero convinta, chissà perché, che Napoli non esistesse. Pensavo che fosse un luogo d’invenzione, una fantasticheria, come l’Eldorado, come Fantàsia, l’Isola che non c’è o il Paese dei balocchi. Non so come mi si fosse cacciata in testa quest’idea. Fatto sta che quando sentivo parlare di qualcuno che viveva a Napoli, mi figuravo che fosse un modo di dire, un po’ come ‘sta in un mondo tutto suo’: in quel caso, un mondo luminoso alle pendici di un vulcano, pieno di voci e di luce azzurra (perché anche se pensavo che non esistesse, in qualche modo me l’immaginavo, questa Napoli che non credevo che avrei visto mai, così come ci si immagina l’Eldorado e il Paese dei balocchi).

Ovviamente questa mia fissazione della non-esistenza di Napoli risale a un periodo davvero remoto della mia infanzia; da molti anni la bambina che ero non esiste più, e gran parte delle manie, dei desideri, delle idee che aveva, si sono persi, perché li ho scordati del tutto e sono sbiaditi senza lasciare tracce; non ho dimenticato, però, la sensazione lieve e felice che mi dava il pensiero di Napoli quando ero convinta che non fosse altro che un pensiero. 

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Probabilmente, se non l’ho scordata il merito è di molti film nient’affatto recenti, in cui si vede proprio Napoli. Sono film in cui la luce è ovunque, uno splendore disadorno e azzurrino che invade case dalle pareti bianche, vuote, i mobili di legno lucidi, una lavatrice che non si capisce che cosa le manchi, e le improvvise penombre, terribilmente estive, di quella che troppo a lungo non ho saputo chiamare la controra. In quei muri nudi, in quella luce, nei cortili splendidi e un poco fatiscenti, nelle pietre porose, nelle sedie impagliate, trovo una strana pace, la sensazione che non ci sia spazio per l’angoscia quando l’aria è così azzurra, che niente possa finire, che il tempo scorra immobile, finalmente. Vedo questi film e torno in un posto dentro di me, quel posto che da bambina chiamavo Napoli, pensando che fosse un luogo immaginario in cui rifugiarmi per sfuggire a Milano, che quando ero piccola io non era la città magnifica in cui tutti vogliono vivere ora, ma era molto grigia, e c’era il freddo e il cielo bianco, basso nell’autunno, il cielo della scuola, della noia e dei giorni tutti uguali. 

Anche adesso, che a Napoli ci sono stata – non abbastanza, però – e ho camminato per le strade, sbirciato oltre i portoni aperti dei palazzi e bevuto molti caffè, anche adesso che tutti vogliono vivere a Milano, quel posto dentro di me continua a esistere e ci torno ogni volta che voglio, e mi faccio aiutare, per tornarci, dai film di Troisi e dai film di De Crescenzo.

Ma i film di Troisi li ho visti tutti dopo la sua morte, avvenuta che ero ancora bambina: così lui per me è sempre stato, da quando mi pare di averlo conosciuto nei suoi film pieni di case di Napoli e di luce di Napoli, perdutamente fisso alla giovinezza; mentre la notizia della morte di De Crescenzo, che pure è la morte di un novantenne, di una persona che ha molto vissuto, per di più con la faccia di chi ama proprio la vita – mi sembra adesso stranamente inconciliabile con la mia idea di lui. Non trovo spazio per la morte nella casa di Bellavista, con quel cortile bellissimo, con gli sposini che si vogliono rubare lo spazio, con la lavatrice incantata e l’ascensore che si blocca, con le conserve di pomodoro e tutte quelle mattine di sole, le mattine che sognavo e vedevo di rado, al tempo della mia infanzia a Milano. 

In fondo penso che forse il fascino di De Crescenzo, con quella sua faccia bellissima, saggia e un po’ sardonica, che me l’ha sempre fatto somigliare a come un bambino potrebbe immaginarsi Dio (tant’è vero che proprio in quel ruolo esordì nel geniale Pap’occhio di Renzo Arbore, e chissà dunque, qui, qual è la causa e quale l’effetto, ma che importa?), stesse proprio in questo: nell’avere l’aria di divertirsi un mondo, nella vita, di riuscire a essere contemporaneamente dentro e fuori dal tempo, di infischiarsene anzi del tempo, proprio come lo psichiatra folle che interpreta in 32 dicembre

La familiarità che esibiva con i filosofi antichi, riufiutando di studiare la filosofia come una lingua morta, e il suo desiderio di raccontare Epicuro e Socrate come se fossero stati amici suoi, in quell’opera che qualcuno chiama divulgazione con disprezzo, qualcun altro con rispetto troppo enfatico, a me piace credere che nascesse, semplicemente, da un’idea del tempo un poco sghemba, stralunata. Una specie di illusione ottica temporale per cui, per il solo fatto di essere uomini siamo in un certo senso contemporanei di tutti gli altri uomini, di tutti quelli che hanno messo piede su questa terra, e abbiamo il diritto di trattare con confidenza anche i grandi, che sono stati uomini come noi. Mi sembra un’idea della storia umana fino all’eccesso, sfrontata, spassosa, imprecisa magari ma affascinante: impossibile da imitare, tremenda da scopiazzare, meravigliosamente semplice però, da contemplare. Per fortuna rimane la luce di quei vecchi film, come un rifugio, un posto dove esistono solo uomini d’amore e di libertà, qualcuno in chitone, qualcuno in completo di lino, qualcuno che azzarda un pensiero poetico. 

 

L’AUTRICE – Ilaria Gasparicollaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno) e Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi).

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