Loredana Lipperini torna in libreria con una storia illustrata che insegna ai bambini a superare le proprie paure senza vergognarsi – Su ilLibraio.it un estratto da “Il senzacoda”

Tutti abbiamo paura di qualcosa. C’è chi ha paura del buio, chi dei fantasmi o del temporale. E poi c’è Ari, che ha paura di tutto. I suoi sogni sono infestati da mostri a dir poco strani: chi mai si farebbe intimidire da un ragno rosa con la pipa o da un serpente con in testa un barattolo? Eppure ogni mattina Ari è sempre più pallida e il cuscino sempre più bagnato di lacrime.

Anche i mostri, bisogna ammetterlo, non hanno vita facile: spaventare Ari (la protagonista del nuovo libro della scrittrice e conduttrice di Fahrenheit Loredana Lipperini: Il senzacoda – Storia di una bambina fifona, mostri impossibili e gatti straordinare, in libreria per Salani, con le illustrazioni di Stefano Tambellini) tutte le notti è stancante, e loro hanno decisamente bisogno di una vacanza. Ma come Ari presto capirà, le paure dei sogni sono speciali e per scacciarle serve qualcosa di altrettanto speciale. Qualcosa come… un gatto! Un gatto senza coda, per la precisione.

Insieme a lui, Ari attraverserà le terre dei sogni fino a trovarsi al cospetto di un’antichissima banda di felini con il potere di salvare gli umani dagli incubi più terribili. E grazie all’aiuto delle amiche di sempre – e del fantasma di una signorina d’altri tempi – scoprirà tutto il suo coraggio. Divertente e vibrante come le vibrisse di un gatto: un’avventura sospesa tra sogno e realtà che aspetta solo di acciambellarsi sulle nostre gambe per non lasciarci più.

loredana lipperini il senzacoda

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

(…)

Per Ari, la paura grande iniziava nel momento preciso in cui la coscienza scivola via per cedere al sonno. Ogni sera, mentre i rumori della casa (i passi di sua madre, il chiacchiera-chiacchiera della televisione, lo starnuto serale di suo padre, uno solo e fortissimo alle otto e quarantacinque in punto) si facevano lontani come onde dell’oceano, Ari vedeva nella mente la sfera della Terra, azzurra e bianca nel cielo nero. Non era ancora un sogno: era, in un certo senso, la sigla dei sogni, come i titoli di testa dei film e delle serie televisive. In altre parole, quando appariva la Terra, Ari sapeva che doveva restare sveglia, perché quel che seguiva l’avrebbe spaventata a morte.

Ari non sapeva bene perché fosse proprio quel bel pianeta dall’aspetto tranquillo ad apparirle nel dormiveglia, e non un elefante o una piramide o una torta al cioccolato o un picchio. Era così da quando poteva ricordare: ferma nel buio, la sfera sembrava avvisarla che se non avesse tenuto gli occhi
bene aperti sarebbe precipitata fuori dai bordi, giù dal blu delle acque e dal bianco delle nuvole, e fuori non c’era che il nero, e nel nero c’erano loro, che tutte le notti aspettavano il suo arrivo.

Ogni sera, Ari provava a resistere. Al primo apparire della Terra si girava sulla schiena, costringendo gli occhi a fissare il soffitto anche se loro volevano chiudersi a tutti i costi: si capisce, con gli occhi c’è poco da discutere, sono ribelli e indipendenti, si aprono quando c’è un rumore improvviso e si chiudono quando la luce è forte, e soprattutto quando è forte il sonno. Infatti, dopo una lotta che ad Ari sembrava lunghissima ma durava quanto lo sbadiglio di un gatto, si chiudevano, tutte le sere, e si aprivano, tutte le mattine. E tutte le mattine il cuscino di Ari era bagnato di lacrime.

«Sei pallida» diceva la madre di Ari mettendole davanti il latte, una ciotola con la frutta fresca e un panino dolce con le gocce di cioccolato.
«Perché bisogna dormire per forza?» chiedeva Ari sbocconcellando il panino.
«Perché il nostro corpo ha bisogno di riposare» rispondeva la madre, la tazzina con il caffè in una mano, il cellulare nell’altra per controllare, diceva, le notizie. Ari sperava sempre che prima o poi una di quelle notizie avrebbe rivelato il modo per rimanere svegli, ma del resto sua madre non le diceva mai cosa stesse leggendo, dunque non lo avrebbe scoperto, e lei era troppo timida per chiederlo. Fifona, era questa la parola giusta. Poi, morso dopo sorso dopo morso e come succede solo a otto anni, Ari dimenticava, e il mattino si apriva davanti a lei come ogni giorno, e quando il giorno finiva tutto ricominciava, e Ari si ritrovava nel letto, con il pigiama felpato se era inverno, in maglietta e pantaloncini se era estate, ad aspettare che la palla bianca e azzurra le intimasse di non dormire.

Ari non sapeva a chi dirlo. Non a sua madre, che le avrebbe risposto ‘sciocchezze’ senza alzare gli occhi dal cellulare. Non a suo padre, che l’avrebbe sollevata fra le braccia come se fosse ancora molto piccola ripetendo, con un tono più gentile, la stessa cosa, ‘sciocchezze’. Non certo a Pips, suo fratello, che era davvero, lui sì, molto piccolo e le avrebbe schioccato un bacio salivoso sulla guancia mettendole in mano uno dei suoi dinosauri per giocare. Lo avrebbe detto, prima o poi, alle sue amiche, ma sapeva che non avrebbero potuto aiutarla. Perché il problema di Ari non era il buio. Il problema era quello che c’era dentro.

(continua in libreria…)

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