“Coup de chance”, tradotto in italiano come “Un colpo di fortuna”, è il nuovo thriller romantico diretto da Woody Allen (dal 6 dicembre nelle sale italiane), che spicca per i riferimenti alla produzione precedente del regista americano e passa da un mood scanzonato alla drammaticità sempre più palpabile del secondo tempo… – La recensione
Una donna sposata incontra un vecchio compagno di liceo, che le confessa di avere sempre avuto un debole per lei e che continua a manifestare un certo interesse nei suoi confronti. Si apre così Coup de chance – Un colpo di fortuna, il nuovo film firmato Woody Allen (e che potrebbe essere il suo ultimo da regista, stando ad alcune sue recenti dichiarazioni), presentato fuori concorso all’80esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e arrivato finalmente anche nelle sale italiane.
Bastano poche righe per iniziare a inquadrare la vicenda, ambientata in una Parigi autunnale, contemporanea e priva di fronzoli, e girata per la prima volta – nella vasta carriera del regista americano – in lingua francese.
Dopodiché, a tutto il resto pensano Lou de Laâge, Niels Schneider, Melvil Poupaud e Valérie Lemercier, i quattro attori protagonisti della pellicola, che con la loro interpretazione immersiva e mordace ci trascinano in una storia ad alta tensione, fatta di tradimenti, sospetti e pericoli.
Coup de chance (qui il trailer ufficiale), tradotto in italiano come Un colpo di fortuna e distribuito da Lucky Red, è infatti un lungometraggio in cui ritroviamo l’angoscia latente di Vicky Cristina Barcelona e de La ruota delle meraviglie, ma che allo stesso tempo riprende i temi chiave di Match Point e di Café Society, mescolandoli di quando in quando all’umorismo tenue e sottile di Manhattan o di Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni.
Un esperimento cinematografico che spicca, quindi, per i riferimenti intratestuali alla produzione di Allen, e che si rivela all’altezza delle aspettative soprattutto per la colonna sonora incalzante, per la fotografia essenziale e dal forte impatto, nonché per una sceneggiatura che passa dal mood scanzonato della prima metà a una drammaticità sempre più palpabile nel corso del secondo tempo.
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D’altronde, come capita spesso con i film di Allen, la situazione può precipitare da un momento all’altro per i motivi più impensabili: una frase pronunciata nel frangente sbagliato, lo sguardo di un passante che coglie un dettaglio cruciale senza quasi accorgersene, un errore di calcolo, un pettegolezzo o – come anticipa il titolo – un colpo di fortuna capace di stravolgere per sempre la vita dei personaggi.
Nel caso specifico, però, la loro esistenza sembra mossa da pulsioni che – dal canto loro – suonano invece piuttosto familiari: insoddisfazione, attrazione, bovarismo, valori borghesi, egocentrismo, convenzioni familiari, in un mélange contraddittorio e fatale che porterà Fanny a cedere alla corte sfrenata di Alain, preferendo un destino bohémien e sull’orlo del precipizio alla quotidianità prosastica su cui si era adagiata con il marito Jean, un finanziere più anziano di lei ma che a prima vista si direbbe affettuoso e di buon cuore.
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Questo, quantomeno, finché un investigatore privato e la suocera di Jean non lo portano a rimettere ogni cosa in discussione, proprio come già sta facendo a modo suo la stessa Fanny, trasformando il triangolo amoroso in atto in una deflagrazione di doppi giochi, inganni, ipocrisie e vendette, che in un finale alla Irrational man culminano nelle note quasi profetiche di Cantaloupe Island di Herbie Hancock.
Un ritorno in sala in grado di restituirci il classico meccanismo a orologeria che Woody Allen sa innescare con brio e profondità, senza discostarsi dai suoi cavalli di battaglia ma senza regalarci al tempo stesso un brivido in più del previsto – complice probabilmente anche il nome del film, nel quale già si allude a un ribaltamento di equilibri senza esclusione di “colpi”, fra dilemmi etici e decisioni estreme.
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Ne consegue che Coup de chance resta un thriller romantico con pochi plot twist, un canto del cigno in cui si intravedono ancora le intuizioni curiose e intriganti di un regista d’altri tempi, il quale tuttavia fatica a restare al passo con il presente, con i suoi temi caldi e con i suoi mutamenti, finendo per sembrare “sospeso” in un tempo sempre uguale a sé stesso, che abbiamo ormai imparato a memoria.
Una cosa, però, va comunque ammessa: questa sospensione – anche di incredulità – rimane figlia dell’esperienza cinematografica di chi sa comunque il fatto suo. Non è sgradevole, né noiosa, e anzi probabilmente nasconde la scelta deliberata del regista di salutare il pubblico non con un capolavoro nuovo e diverso dal solito, bensì con un ritorno circolare ai suoi tòpos preferiti, suggellando così il contributo fuori dall’ordinario che nel suo insieme, da oltre cinquant’anni, dimostra di saper dare al cinema occidentale.
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