Prosegue su ilLibraio.it la serie sui tabù. Questa volta la scrittrice Ilaria Gaspari racconta “quanto sia perverso, potente e irresistibile il fascino che spira dalle storie di cannibalismo – e soprattutto, quanto si avvicini al piacere proibito di pensare l’impensabile…”. Nel suo viaggio nella storia della letteratura e dell’arte si citano, tra gli altri, i miti dell’antichità, l’Inferno di Dante, Montaigne e due romanzi italiani contemporanei…

Accettare che siamo quello che mangiamo è già di per sé abbastanza complicato; ma ancora più complicato è immaginare che, alla fin fine, in teoria e qualche volta pure in pratica, sarebbe possibile anche l’inverso – mangiare quello che siamo. L’idea che qualcuno addenti le nostre carni, confine e misura di quella costruzione fragile e prepotente che è la nostra identità, e l’ipotesi di ritrovarci di fronte a un manicaretto di carne umana, di assaggiarla addirittura – magari fuorviati dalla convinzione che si tratti di qualche ‘innocua’ costoletta suina o di una spalla di bovino – sono ugualmente perturbanti e fascinose: minacce impalpabili e avvincenti, orripilanti fino a risultare insostenibili.

Poche pratiche, del resto, ci appaiono più ambivalenti, torbide, grottesche e magnetiche del cannibalismo: tabù arcaico, ancestrale, usato spesso e volentieri come arma e minaccia, fantasma di fantasticherie inconfessabili e indelebile marchio d’infamia.

Di fronte all’idea del cannibale, anzi, addirittura alla sua ipotesi – all’ipotesi che una pratica tanto mostruosa sia possibile – fateci caso: reagiamo nel modo più infantile che ci sia. Cioè con il disgusto: ma un disgusto svergognato, deliziosamente morboso, che ci dà la voglia di saperne di più, di osservare di più. È il ribrezzo nella sua forma più antica, un’emozione puramente regressiva: ibrido di fascinazione e orrore, di attrazione per dettagli da brivido da centellinare con la lentezza attentissima con cui nell’infanzia potevamo sfogliare un libro di favole, sbirciando con il cuore in gola – e con la segreta eccitazione che nasce dal conoscere in anticipo l’astuzia che condurrà al lieto fine e alla vendetta – la mano ossuta della strega che, per assicurarsi che fosse abbastanza cicciottello, attraverso una grata tastava il ditino di Hansel e Gretel (protagonisti di una fiaba che, secondo alcuni studiosi, nacque proprio sulla base di un reale episodio di cannibalismo).

Quanto sia perverso, potente e irresistibile il fascino che spira dalle storie di cannibalismo – e soprattutto, quanto si avvicini al piacere proibito di pensare l’impensabile – lo rivela, per negazione, il verso ellittico con cui Dante nel XXXIII canto dell’Inferno cela e rivela insieme l’antropofagia del conte Ugolino (Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno): imprigionato in una torre che oggi, per inciso, ospita una bella biblioteca, lo sventurato conte finì per nutrirsi dei suoi stessi figli, rinchiusi con lui nella tetra prigione. C’è da dire che i ragazzini, in questo caso, almeno secondo quel che il conte pisano racconta a Dante, furono tanto generosi da offrire spontaneamente al padre le loro carni, prima di morire di stenti, e dissero: “Padre, assai ci fia men doglia/se tu mangi di noi: tu ne vestisti/queste misere carni, e tu le spoglia”.

Più macabra, e più inquietante, è la storia del banchetto mostruoso che il re Atreo allestì, a Micene, a beneficio di suo fratello Tieste, per vendicarsi del fatto che questi avesse sedotto la sua sposa, Erope. La vendetta di Atreo è atroce: invita Tieste a un banchetto blandendolo con la promessa di lasciargli la metà del regno. Il menu prevede certi arrostini deliziosi, Tieste mangia a quattro palmenti; peccato che, dopo pranzo, il diabolico fratello gli additi le estremità amputate – teste, mani e piedi – dei suoi cinque figli: perché eran proprio loro, le carni che Tieste aveva appena delibato.

Anche il mito di Procne e Filomela racconta un banchetto cannibale imbandito, per vendetta, a un padre inconsapevole: Procne, moglie di Tereo, quando scopre che lui ha violentato sua sorella Filomela gli arrostisce il figlio, Iti, e solo dopo che lui ha assaggiato la sua carne gli rivela che non si tratta di innocuo animaletto: l’ira di Tereo sarà tale che, per salvarsi, le due sorelle dovranno invocare l’aiuto degli dei, che tramutano Procne in rondine e Filomela in usignolo.

La più cruenta delle tragedie di Shakespeare, il Tito Andronico, si impadronirà di queste scene di allucinata antropofagia trasformandole nella pena che Tito Andronico – immaginario generale romano del declino dell’impero – infligge alla regina dei Goti, Tamora, i cui figli gli hanno violentato la figlia, Lavinia, mutilandola oltretutto della lingua e delle mani. Per non lasciare impunito il crimine, Tito – come Atreo, come Procne – imbandirà le carni dei due ragazzotti alla loro stessa madre.

Rubens-Saturno

Il fascino dell’atroce banchetto, comunque, ha radici antichissime, che sprofondano nel materiale dei miti più arcaici: basta pensare alla storia di Crono (Saturno per i romani) che all’alba dei tempi, prima ancora della nascita di Zeus, divorò i suoi figli perché convinto che uno di loro l’avrebbe spodestato. Rubens, e poi Goya, hanno ritratto il dio pre-olimpico intento al fiero pasto in quadri che sono dei veri capolavori di magnetismo: ci ripugnano, ci turbano, eppure non possiamo fare a meno di guardarli. Ci riportano a una sensazione profondamente infantile, di attrazione e repulsione commiste, incomprensibili; e, guarda caso, anche nella storia di Crono, come in quella di Hansel e Gretel, sarà infine l’astuzia a salvare il bambino innocente – Rea, la madre, protegge il piccolo Zeus rifilando a Crono una pietra da mangiare al posto del dio neonato. Il senso di soddisfazione per questa vittoria dell’intelligenza sulla forza bruta ha la potenza e la dolcezza delle piccole conquiste dell’infanzia; anche perché, in tutti questi casi, si tratta di storie di bambini, o comunque di creature in stato di minorità (figli), che subiscono la minaccia dell’ingestione da parte di adulti, che siano padri, madri o streghe. Sono storie che non solo parlano di bambini, ma che continuano a parlare al bambino dentro di noi, perché si rivolgono alla nostra parte più antica, più indifesa, più selvaggia, intraprendente e spaventata; più arcaica. Quella parte di noi in cui i simboli sono vivi e sanno parlare, e dai simboli zampillano i miti.

Goya-Saturno

Ma nella vasta foresta della fascinazione antropofaga a essere apparecchiati e imbanditi non sono solo i bimbi, come dimostrano casi criminologici di sicuro charme morboso: ad esempio quello di Issei Sagawa, il famigerato studente giapponese che nel 1981 si iscrisse a un corso di letteratura inglese alla Sorbonne, a Parigi ed ebbe la bella idea di invitare una compagna di università, la venticinquenne olandese Renée Hartevelt, a ripassare con lui per un esame; ma mentre insieme leggevano poesie, le sparò un colpo di fucile a bruciapelo e finì per imbandirsi una cenetta piuttosto speciale: un seno della ragazza con contorno di piselli e carotine. O quello di Jeffrey Dahmer, il cannibale di Milwaukee; oppure ancora, la sconcertante abbondanza di criminali in carne e ossa che Thomas Harris, in diverse interviste, ha citato come modelli e ispirazioni per il cannibale letterario – e cinematografico – forse più celebre di tutti: il fascinoso, macabro, grottesco e disgustoso Hannibal Lecter.

Di fatto, non è strettamente necessario che la casistica cannibale ci parli di bambini, perché riesca a parlare alla parte bambina di noi, quella parte avida di piaceri e rassicurazioni che ha a che fare con la scoperta di sé e la rischiosa impresa di tracciare un confine alla propria identità – il che implica che poi, come tutto quel che ha dei confini, anche la nostra identità nuova di zecca sarà costantemente sotto la minaccia di essere invasa, violata, sbocconcellata, un pezzo alla volta, da un pericolo che viene da fuori.

La stessa etimologia della parola cannibale ha qualcosa di sorprendente – e di molto legato a questa esigenza di definire un’identità propria in contrapposizione a quella altrui. Chi si potrebbe aspettare, infatti, che la parola cannibale e la parola Caraibi abbiano un’unica radice e siano due facce diverse, ma complementari, di una medesima opera di scoperta e ‘scongiuro’ dell’esotico? E invece, la parola Cannibale viene da canniba, che è il termine (riportato dallo stesso Cristoforo Colombo) con cui gli indigeni delle Piccole Antille designavano alcuni popoli dediti all’antropofagia; da una grafia alternativa della stessa parola, carib-, deriva la radice che ci porta oggi a chiamare Caraibi i Caraibi.

Difatti, è vero che l’antichità non ci fa mancare testimonianze di fenomeni di antropofagia, prevalentemente legati al culto dei morti o alla necessità (per esempio, Polibio racconta nelle Storie che quando Annibale preparava la marcia dall’Iberia in Italia, dato che si preannunciavano enormi difficoltà per i vettovagliamenti dell’esercito, uno degli amici del condottiero gli suggerì di abituare le truppe a mangiare carne umana); ed è vero anche che si tratta, in genere, di testimonianze che implicano un’accusa di barbarie lanciata ai popoli dediti a queste usanze. Ma, di fatto, la costruzione sistematica del mito di società fondate sulla pratica del cannibalismo appartiene all’epoca della conquista delle Americhe, e offre una giustificazione estremamente forte (in quanto fondata su un tabù molto tenace) alle violenze “normalizzatrici” dei conquistadores.

La nozione moderna del cannibale, basata su testimonianze rigorosamente indirette, ha in primo luogo a che fare con la designazione di un diverso da sé – un diverso selvaggio, barbaro, minaccioso: il che implica che qualsiasi istanza di dominazione trovi allora, nella mostruosità stessa delle pratiche dei dominati, una sua adeguata giustificazione morale.

Solo Montaigne, il pensatore che più di ogni altro, credo, dovrebbe essere letto oggi, in questi tempi diffidenti e superstiziosi, seppe lucidamente riconoscere il rischio implicito nel fatto che spesso ci ritroviamo a chiamare barbaro quello che, semplicemente, non comprendiamo: “Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo”, scrisse nel suo saggio Dei cannibali, oltre quattro secoli fa.

Oggi la parola cannibale non sembra evocare immediatamente il suo originario legame tropicale con le conquiste cinquecentesche, né tanto meno con le spiagge candide dei Caraibi dove sogniamo di rilassarci e abbronzarci per preservare la forma esteriore più attraente, più perfetta e presentabile di noi, quella forma che si fonda su una corretta alimentazione, su diete rigide e controllate, su un’attenzione particolare al benessere, alla prevenzione dell’invecchiamento e delle malattie.

Oggi, però, nel mondo sembra anche dilagare un delirio di diffidenza e paura del diverso, ossessionato dal concetto di identità e dalla mania, tutta infantile, tutta anti-illuministica, di preservare i propri confini anziché scoprire che, forse, non è vero che sono tanto minacciati quanto ci suggerisce il terrore irrazionale che tutti custodiamo nella nostra parte più arcaica – il terrore di smarrirci, dissolverci, lasciarci ingoiare.

Per fortuna di recente mi è capitato di leggere due romanzi italiani, diversissimi per vocazione e struttura, che raccontano due facce speculari – forse complementari – di quest’ossessione per il preservarsi, e dell’urgenza simbolica di purificazione che riversiamo sul cibo, e lo fanno con rara intelligenza e assenza di moralismi.

Arturo Belluardo, nel suo Calafiore (Nutrimenti), con una lingua tutta sinestetica, tanto che leggendo ci si sente girare la testa come dopo una colossale abbuffata, racconta di un uomo grassissimo, un orco innocente e famelico immerso nelle contraddizioni di una società che non parla che di cibo, non pensa che al cibo, e che fa, però, del vero grasso, del solo che veramente conosca la fame, il suo capro espiatorio, la vittima sacrificale da espellere – e la trovata geniale è che il sacrificio in cui la sua carne dev’essere consumata è nientemeno che un sacrificio cannibale, rito arcaico e indicibile che riesuma il tabù più tabù di tutti, nonostante un dietologo molto alla moda, e molto contemporaneo, riveli al protagonista che la sua ciccia è anacronistica perché fu proprio il grasso lo stratagemma evolutivo che permise agli uomini primitivi di sfuggire alle zanne delle belve, presto stufe di divorare lombi lardellati anziché le carni proteiche e muscolose di altri mammiferi più snelli.

All’opposto, Tutto chiuso tranne il cielo, di Eleonora Caruso (Mondadori), è la storia di un adolescente filiforme, sottile fin quasi a evaporare via: Julian, raccontato da vicinissimo, con sensibilità inusuale e dolorosa, senza compatimenti, senza sdolcinatezze, nel suo rifiuto di mangiare che è la difesa di un ragazzo, ancora molto bambino, dalla paura più antica: quella di essere mangiato, cioè invaso, ferito – in altre parole, amato. Una paura che parla a tutti, e di cui tutti facciamo fatica a parlare, almeno finché non accettiamo quanto fragile, selvatico, prepotente e contraddittorio, sia sempre il fondamento della nostra identità.

 

L’AUTRICE – Ilaria Gasparicollaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno) e
Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi).

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