I dodici racconti di Peter Cameron (autore, tra gli altri, di “Un giorno questo dolore ti sarà utile”), scritti nel corso della sua carriera e raccolti da Adelphi in “Che cosa fa la gente tutto il giorno?”, sono finestre sulla solitudine

“Mi inginocchio in corridoio e lei si avvicina a premermi la testa contro la pancia. La stringo delicatamente fra le braccia. L’unico rumore che si sente è il suo scodinzolare, ma è talmente leggero, di certo non sveglierà Miranda. Aspetto questo momento per tutta la giornata.”

Nel mondo di Peter Cameron c’è un uomo che nasconde alla moglie una cagnolina: l’ha addestrata a dormire di giorno, e di notte esce con lei. Quest’uomo preferisce far credere alla moglie di avere una relazione piuttosto che rivelare il suo segreto, il suo bisogno di un’altra cosa da amare.

C’è un’anziana donna che si trova senza casa, senza nemmeno un passato a cui aggrapparsi, bloccata in un limbo di apatia, un ingombro diventato fastidioso e messo da parte in un ospizio. C’è una coppia di ex amanti che si ritrova dopo tanti anni, cerca di comunicare, ma è tutto fuori tempo, fuori posto.

C’è una ragazza che, di ritorno dall’Africa, trova solo porte chiuse, realtà precarie, una famiglia instabile, dove tutti inseguono illusioni: scoprirà la sua dimensione in un mondo fasullo, un parco tematico, dove indossare un costume, cambiare nome e recitare una vita non sua, un’attrazione per turisti.

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I dodici racconti di Peter Cameron, scritti nel corso della sua carriera e raccolti da Adelphi (traduzione di Giuseppina Oneto) sono finestre sulla solitudine: Che cosa fa la gente tutto il giorno? mette in fila storie ordinarie, fatte di piccole cose, di momenti insignificanti che definiscono il nostro presente, perché suscitano i sentimenti che ci tramutano in ciò che siamo adesso – per parafrasare Mary Shelley, nel potente esergo scelto da Cameron.

È un viaggio in quello che succede dentro le persone comuni, ritratte nella loro quotidianità con un’atmosfera sospesa che richiama l’arte del silenzio malinconico di Edward Hopper. Non è casuale che uno dei racconti si ispiri alle fotografie di Richard Tuschman, che tanto spazio ha dato all’universo e alle meditazioni di Hopper.

I personaggi di questi racconti li immaginiamo così, smarriti, gli sguardi nel vuoto, in ambienti neutri e normali: una donna rimane in macchina a guardare nel buio la sua casa, dove non c’è più nessuno ad aspettarla, un marito si interroga sulla sua vita, sulla sua mancanza di qualcosa a cui non sa dare nemmeno un nome, una donna si accorge di essere sola e ne ha paura, una famiglia per stare unita si isola dal mondo in una cittadina dove non conosce nessuno.

“Penso che ci sentissimo tutti in quel modo: rinchiusi in gabbia e sconnessi, inutili e soffocati. Era anche un’estate caldissima in quella città industriale delle pianure, e per giorni e giorni e notti e notti non tirava un filo d’aria, le tende pendevano abbattute alle finestre come bandiere di un esercito sconfitto”.

I protagonisti sono alla ricerca di se stessi: lo fanno nell’altrove, nell’alternativa di un luogo, di una casa che non è la loro, o nell’irrealtà di una vita parallela, lo fanno anche non riconoscendosi più allo specchio, con un taglio di capelli, un buco all’orecchio. Sono tutti tentativi di scappare dal presente, sono uccellini nelle gabbie, pronti a essere liberati, per poi trovarsi nel vuoto, ad annaspare, a non muoversi.

È sempre più difficile comunicare, nel mondo in sordina di queste storie: i racconti sono zeppi di dialoghi, eppure le persone non si capiscono, parlano con segreterie telefoniche, con gatti spaventati o diffidenti, si cercano e poi non riescono a dire ciò che vogliono, e perdono occasioni, si ritrovano in case silenziosissime, vuote come le loro esistenze, si sfiorano con mani che vengono allontanate dalla corrente, non sentono nulla, e si cercano quando è troppo tardi.

Emergono le debolezze di adulti imbarazzanti, pieni di insicurezze e fragilità: persone alienate, spaventate all’idea di entrare da sole in un supermercato, incagliate nella loro solitudine, che pianificano la loro separazione in un fast food.

Ci si aggrappa un all’altro, ma non si è capaci di incastrarsi, si rimane indecisi sul da farsi, se andare e rimanere, si ripete “Non so”: di fronte alle possibilità di scelta, ci si ferma, zitti, immobili, senza pensare a niente, senza sapere cosa si desidera, o se si ama.

«C’è qualcosa che per te ha importanza?».
«Ma certo».
«Cosa?».
Ho cercato di pensare a cosa l’avesse ma non mi è venuto in mente niente, perciò non ho risposto. Siamo rimasti entrambi zitti.

C’è tutto il disorientamento proprio di Cameron, in questa raccolta, i cui pezzi attraversano la narrativa dell’autore dal 1984 al 2014, e ci appaiono tutti terribilmente attuali: ci sono la solitudine, l’incomunicabilità, l’isolamento sociale, la ricerca di una propria consapevolezza, i temi che ha raccontato con James, il personaggio della sua opera più celebre, Un giorno questo dolore ti sarà utile, così universale da essere tornata in voga tra i giovani, fenomeno del passaparola di TikTok.

Attento al dettaglio, nitido nelle sue descrizioni, Cameron dà voce all’intimo senza perdere un sottile sorriso, una vena di humour nel descrivere le tante sfumature psicologiche della condizione umana, nella sua incapacità di esistere: nelle inquadrature quotidiane di Che cosa fa la gente tutto il giorno? lui non c’è, ci sono solo i suoi protagonisti, in primo piano, che si dondolano su una vecchia sedia con una candela in mano, che si immaginano galleggiare in una piscina piena delle loro cose che scivolano via, che si stendono in campi di uva spina o che si sentono sospesi in aria, incapaci di evitare di precipitare a tutta velocità.

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