Suddiviso in quattro archi temporali e immaginato seguendo i passaggi della narrazione storica, “Come tigri nella neve”, il debutto di Juhea Kim, sa catturare il lettore non solo per l’argomento politico (sempre denso ma mai inaccessibile), ma anche per l’approfondimento sensuale sul mondo delle kisaeng, talentuose cortigiane d’alto bordo, qui dipinte con estrema raffinatezza e con un’abilità narrativa degna delle più recenti grandi opere della letteratura orientale. Un romanzo che insegna cosa significa il termine coreano “inyeon” – legame – vale a dire quel particolare tipo di connessione capace di unire le persone anche oltre l’interferire degli eventi

L’epopea di una Nazione nella tradizione delle sue kisaeng, le talentuose cortigiane d’alto bordo; suddiviso in quattro archi temporali (compresi fra il 1917 e il 1965) e immaginato seguendo i passaggi della narrazione storica (dal periodo dell’imperialismo nipponico alla spartizione nelle due zone di occupazione), il debutto letterario di Juhea Kim, Come tigri nella neve, traduzione di Emanuela Damiani per Nord, introduce i lettori al significato, altrimenti inafferrabile, del termine coreano inyeon – o legame – vale a dire quel particolare tipo di connessione che, se prevista dal destino, è capace di unire le persone anche oltre l’interferire degli eventi ma che, se contraria al suo disegno, finisce per spezzarsi senza possibilità di resistenza alcuna.

copertina del romanzo Come tigri nella neve di Juhea Kim

“Ovunque la vita accadeva senza che loro ne fossero consapevoli, e anche le loro vite accadevano in presenza di ogni altra”, così suggerisce l’autrice a proposito dei soggetti collettivi dell’opera, un insieme di politici, sovversivi e intrattenitrici tutti indaffarati nel sopravvivere alla giornata ma comunque accomunati da un medesimo obiettivo: rovesciare il predominio giapponese e accompagnare il popolo verso la nascita di una nuova Repubblica, alfine libera e indipendente.

In tal senso, è nel contrastato rapporto fra la promessa cortigiana Jade Ahn e l’orfano “senza nome” Nam Jung-ho che meglio si esprime l’importanza del “filo” sul dipanarsi della Storia: conosciutisi da bambini quando anche un semplice gesto di saluto risultava fra di loro negato (come avrebbe potuto la giovane apprendista di Madame Dani avere a che fare con un povero mendicante?), poi ritrovatisi adulti ma in un contesto profondamente mutato – ora la donna è la più famosa attrice di Seul e l’uomo un importante attivista per la liberazione della Corea – entrambi i personaggi parteciperanno delle sorti del romanzo, e quindi del Paese, quasi fossero essi stessi meccanismi invisibili di un reciproco ingranaggio e ciò nonostante le molteplici vicissitudini che, lungo il corso dei capitoli, sembreranno ostacolarne l’avvicinamento (dall’accusa di comunismo nei confronti di Jung-ho all’innamoramento di Jade verso l’ambizioso Han-Chol).

È d’altronde, quella fra i due, un’unione benedetta da chissà quanto; o almeno sin dal giorno in cui il padre di Nam Jung-ho (un ex-militare soprannominato “la Tigre del Pyongan”) mise a rischio la propria la vita pur di salvare un prezioso esemplare di tigre bianca, con ciò assicurandosi non soltanto la benevolenza della Natura ma puranche quella di Yamada Genzo, un capitano giapponese che, per ragioni di riconoscenza, veglierà su di lui, e ancora sulla sua progenie, per tutta la durata del romanzo.

Che il legame fra i protagonisti sia poi in grado di sopravvivere alla morte, questo è tutto da scoprire; quel che è indubbio è che delle tante relazioni sviluppate nella trama – alcune piene di sfumature, tipo la competizione/amicizia fra Jade Ahn e la “sorellina” Lotus o la sua repulsione/bisogno nei confronti dello spietato Ito Atsuo – solo quelle supportate dal vero inyeon sapranno confrontarsi con le insidie del quotidiano; delle altre (e sono la maggior parte) non rimarranno, invece, che lievi impronte sulla neve, destinate a scomparire con l’arrivo del disgelo.

Con un intreccio mai scontato che sostiene la grandezza del romanzo, l’opera prima di Juhea Kim sa catturare il lettore tanto per l’argomento politico (sempre denso ma mai inaccessibile) quanto per l’approfondimento sensuale sul mondo delle kisaeng, qui dipinte con estrema raffinatezza e con un’abilità narrativa degna delle più recenti grandi opere della letteratura orientale – da Nella terra dei peschi in fiore di Melissa Fu a La strada delle nuvole di Jenny Tinghui Zhang, solo per citarne alcuni -.

“Per secoli in Corea le uniche donne artiste e intellettuali sono state le cortigiane (…)”, risponde l’autrice a chi le domanda come mai abbia scelto una concubina quale protagonista del libro, “E ciò che ho capito è che volevo una donna molto volitiva e ben educata, e che creasse il proprio destino”.

E sull’epilogo inaspettato – questa volta ambientato a Jejudo, fra le leggendarie pescatrici di abaloni – la conferma di quanto l’indipendenza di un Paese faccia il paio, sempre e comunque, con la libertà delle sue abitanti, tutte.

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