Ponendosi affianco degli ultimissimi fenomeni della tradizione culturale asiatica per atmosfere narrative e per qualità della divulgazione storica, “La strada delle nuvole” di Jenny Tinghui Zhang ci racconta la discriminazione razziale subita dalla popolazione cinese durante i cosiddetti anni dell’esclusione (1882-1893), quando ai lavoratori veniva negato non soltanto il diritto all’immigrazione, ma anche la possibilità di intrattenere rapporti, sentimentali e non, con i cittadini bianchi residenti nel territorio americano

Fino a che punto è possibile sottrarsi a un finale già scritto? Imprigionata in un continente straniero dove tutto le risulta incomprensibile, persino il suo medesimo corpo, è con ritmo tensivo ed esposizione in prima persona che la straordinaria eroina de La strada delle nuvole di Jenny Tinghui Zhang (qui al suo debutto internazionale per Nord, nella traduzione di Elisa Banfi) tanto ci racconta a proposito della discriminazione razziale subita dalla popolazione asiatica durante i cosiddetti anni dell’esclusione (1882-1893), quando ai lavoratori cinesi veniva negato non soltanto il diritto all’immigrazione, ma anche la possibilità di intrattenere rapporti, sentimentali e non, con i cittadini bianchi residenti nel territorio americano.

la strada delle nuvole

Di essere gli artefici del proprio destino, insomma. “Ho sempre odiato il mio nome (…) viene da una tragedia”, questo ci confessa in principio di lettura la piccola Lin Daiyu, protagonista dell’opera nonché alter-ego letterario oggetto di un triangolo amoroso nel drammatico intreccio de Il sogno della camera rossa di Cao Xueqin (1792); “nella storia, la madre di Lin Daiyu muore quando lei è piccola e il padre poco dopo. Mi domandavo se i miei genitori fossero spariti per colpa del mio nome”.

In effetti, è fin dalle battute iniziali che quella di Lin Daiyu pare una vicenda imparentata alla sfortuna: allevata dalla premurosa nonna che, al fine di tenerla al sicuro, la traveste da ragazzo e la manda a Zhifu in cerca di un’opportunità lavorativa, ecco il piccolo Feng (questo il suo nome sotto mentite spoglie) trovare riparo nella scuola del maestro Wang, rinomato calligrafo che l’assume come garzone di bottega.

Qui, impegnato nei mestieri più umili, il volenteroso Feng fantastica di divenire egli stesso un maestro di scrittura, osservando di nascosto la moltitudine di significati racchiusi oltre le forme degli ideogrammi cinesi: tre alberi a indicare la foresta, il simbolo del tempo a rappresentare le quattro stagioni, l’immagine del nero quale sovrapposizione di bocca, fuoco e terra.

Ma l’idillio durerà ben poco; ingannata dal lestofante Jasper che la circonverrà per una porzione di pesce, la doppia Daiyu/Feng finirà infatti imbarcata su di un mercantile diretto in California e così, con il terzo pseudonimo di Peony, venduta come merce di scambio per il postribolo di Madame Lee.

Sono queste fra le pagine più crude dell’intero romanzo; Peony, che nel suo maturare all’età adulta subirà l’aggravante di essere immigrata, cinese e quindi priva di documenti, dovrà ricorrere a ogni tipo di stratagemma pur di preservare la propria dignità di donna e ricostruirsi quindi la sua ultima facciata (quella maschile di Jacob Li) presso la cittadina finzionale di Pierce, in Idaho.

Se non fosse che, per certe tragedie, non è prevista altra via di fuga se non quella di venire a compimento; prova ne sia che, quasi lo scotto per essersi ritagliato/a una parentesi di tranquillità all’interno dell’emporio di Nam e Lum, l’incontro (e l’innamoramento) con il reazionario Nelson Wong troverà Jacob Li esposto ad una pericolosissima vicenda di protesta razziale, a esito della quale non gli/le rimarrà altro da fare che sottoporsi all’ennesima, e questa volta definitiva, manifestazione di coraggio: rivelare a tutti la propria identità e, assieme ad essa, riappropriarsi delle mille ambivalenze di una storia che le è sempre stata negata.

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Quella delle due Lin Daiyu. La Sua vera storia. Con una paladina in formazione che nulla ha a che invidiare ad altrettanto sfaccettate personalità del genere (in abiti maschili, dalle bacha posh di Le bambine non esistono alla Viola de La Dodicesima notte, da La Papessa di Donna Woolfolk Cross a Bradamante de L’Orlando Furioso), La strada delle nuvole di Jenny Tinghui Zhang si pone affianco degli ultimissimi fenomeni della tradizione culturale asiatica rinnovandone il successo e per atmosfere narrative e per qualità della divulgazione storica.

“Per me è importante sottolineare che la storia della violenza contro i cinesi, sebbene non sia stata «dimenticata» dagli studiosi, è sconosciuta alla maggioranza degli americani”, conclude l’autrice in epilogo al racconto, “La mia speranza è che questo libro porti la storia della violenza anticinese negli Stati Uniti fuori dai luoghi della ricerca accademica e dentro la nostra memoria collettiva”. Perché, se anche non è possibile sottrarsi a un finale già scritto, è pur sempre nel nostro potere fare in modo che ci rimanga da esempio.

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